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150° anniversario: dalla celebrazione alla riflessione

Pubblicato il: 18/05/2010 18:06:19 -


Una realtà che si fa sempre più multietnica e multiculturale merita approcci attenti e mirati che vanno ben al di là al di là di ogni retorica. Anche perché si è buoni cittadini del mondo se si è Cittadini nella propria Città!
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Agli inizi degli anni Cinquanta alla Sapienza di Roma studiavo storia con Federico Chabod e con Alberto Maria Ghisalberti, specialista del nostro Risorgimento. Mi capitò tra le mani l’“Antistoria d’Italia”, una severissima critica del nostro Risorgimento, che un ricercatore triestino, Fabio Cusin, un po’ fuori dal coro accademico, aveva pubblicato nel 1948. Ne rimasi molto sorpreso. Venivo da una scuola fascista e il Risorgimento era un qualcosa di sacro anche perché eravamo soliti ragionare in termini di assoluta continuità lungo le tre età del Rinascimento, del Romanticismo e del Risorgimento. Ed era anche attiva quella suggestione tardo idealistica per cui la storia non era altro che la faticosa ricerca dell’unità dello spirito! E non solo di quella della nazione!

Prescindo dagli approfondimenti in materia che mi porterebbero fuori tema! Ma quel volumetto mi fece molto pensare, anche se la storiografia “ufficiale” di allora non l’accolse come sarebbe stato opportuno. In realtà, dopo le derive patriottarde del fascismo era più importante ricostruire il senso unitario della storia patria e i suoi concetti fondanti rispetto ad analisi forse troppo mirate sul nostro Risorgimento, che potevano sortire più effetti iconoclastici che puntualizzare quei fattori unitari e comuni al di là e al di qua delle strumentalizzazioni che ne aveva fatto il regime fascista.

C’era stata la Resistenza, era nata la Repubblica, avevamo una Costituzione e l’imperativo era quello di ritrovare i principi fondanti di un Italia assolutamente nuova tesa a ricercare le radici unitarie autenticamente patrie e democratiche della sua storia più che a farne le pulci, come si suol dire. E in effetti Cusin, che le pulci le aveva fatte, non ebbe molta fortuna. Nel ’52 pubblicò un altro volume, “L’Italia unita, 1860-1876”: il solo titolo è tutto un programma: sono gli anni della Destra storica, della occupazione civile e militare del Centro-sud, della tassa sul macinato, della leva obbligatoria, del brigantaggio, del Gattopardo, e, in materia scolastica, della legge Casati. Motivi di analisi e di denuncia, ovviamente, non mancava a Cusin, ma nella nuova Italia repubblicana, antifascista, nata dalla Resistenza, impegnata nella Ricostruzione, avviata da un lato al consolidamento della democrazia, dall’altro all’imminente boom del “miracolo economico”, la lezione pur importante, autorevole e documentata di Cusin non trovava molto spazio.

Tutta la seconda metà del secolo scorso non mostrò particolare attenzione per il Risorgimento. La ricerca storica andava in un’altra direzione: il fascismo, le sue origini e la sua natura; e l’opposizione al fascismo, il tribunale speciale, i fuorusciti, la dittatura, ma anche il consenso delle “masse oceaniche” che non lesinavano applausi. Un altro filone di ricerca guardava alle lotte di classe, ai movimenti popolari laici e cattolici, al pensiero di Gramsci e di Sturzo. C’erano pochi spazi per analisi di altro tipo. E della “questione meridionale” si studiavano più le dinamiche interne che le ragioni a monte: come se questa fosse più un accidente della nostra storia (tutta colpa de “Il ministro della malavita”, secondo l’intuizione e lo scritto di Gaetano Salvemini) che, invece, l’esito di certe scelte che i governi di Destra e Sinistra, storiche o meno, avevano adottato dal 1861 in poi. Sono solo accenni che meriterebbero motivati approfondimenti! Comunque, sorge ora una domanda: perché proprio ora a 150 anni di distanza assistiamo a una sorta di insurrezione contro la nostra “storia patria”?

Entriamo nel merito. Siamo giunti tardi a costruire uno Stato, e la necessità di costruirlo rapidamente ha spinto i gruppi dirigenti di fine Ottocento a non guardare troppo per il sottile: la concorrenza dei Paesi industriali d’Oltralpe era quella che era e i corridoi dell’Europa che contava passavano per il Nord Italia; era più urgente, stando alla scelta allora effettuata, costruire un forte apparato produttivo e amministrativo che preoccuparsi di “fare gli italiani”, come qualcuno d’altra parte auspicava. Per non dire delle mire coloniali. La politica purtroppo non tenne conto delle legittime aspirazioni dei cittadini ancora sudditi, ma di altre necessità che non coincidevano con le aspettative dei più. I plebisciti furono quelli che furono e il Sud fu più terra di conquista che terra liberata. E ciò era noto anche allora, anche se certa ricerca storica non se n’è mai occupata fino in fondo. E il fascismo portò alle estreme conseguenze le scelte dei governi precedenti e la dittatura fu la ricetta migliore per “legittimarle” e renderle più efficaci.

Con la Liberazione e la Repubblica le cose sono cominciate a cambiare! I Padri costituenti avvertirono che al di sotto dello Stato unitario e centralizzato c’erano altre realtà, quelle delle autonomie locali e regionali, da troppi anni conculcate e che nella Costituzione del ’47 trovarono, invece, un legittimo spazio. L’articolo Cost. 115 recitava – e recita ancora – così: “Le Regioni sono costituite in enti autonomi con propri poteri e funzioni…”. Ma si trattava – siamo nell’immediato dopoguerra – di un auspicio più che di un fatto: solo Regioni di confine godettero subito dell’autonomia e di speciali Statuti, la Sicilia, la Sardegna, la Val d’Aosta, il Trentino Alto Adige e più tardi il Friuli Venezia Giulia. In effetti, man mano che venivano rafforzandosi il regime democratico e soprattutto la coscienza democratica dei singoli cittadini, non più sudditi, nonché il tenore di vita e la coscienza democratica stessa di ciascuno di noi, veniva anche maturando l’appartenenza di ciascuno a una storia più articolata, che veniva da più lontano. fatta di modi di essere e di pensare particolari, di culture e di linguaggi altrettanto particolari.

Queste consapevolezze condussero a un vivace dibattito sulle autonomie e sulla necessità di dar vita a uno Stato diverso, meno autoreferenziale – se si può dir così – e più orientato sui territori. Erano gli anni Ottanta, quando in alcune Regioni, quelle più giovani, nate negli anni Settanta, si venivano maturando le realtà delle Leghe. Alla fine degli anni Settanta nasce la Liga Veneta; all’inizio degli Ottanta Umberto Bossi fonda la Lega Lombarda; più tardi nasce la Lega Nord. Così la linea della ricerca giuridico-istituzionale ed anche costituzionale procede in parallelo, anche con punti di frizione, con la linea in atto in certe realtà territoriali. Comunque, maturavano i tempi per una ristrutturazione dello Stato verticale e centralista ereditato da un lontano passato che non solo riconoscesse, ma promuovesse anche una trasformazione in senso autonomistico.

Un primo avvio è nella legge 241/90, seguita dalla legge delega 59/97, dalla quale cominciarono a discendere i numerosi decreti legislativi con cui lo Stato trasferiva poteri e competenze dal “centro” alla “periferia”. Il tutto ebbe poi il suo primo coronamento con la riforma costituzionale del 2001, sulla quale, com’è noto, tutti oggi concordano nel procedere a ulteriori miglioramenti, anche se non è facile individuarli e definirli con il concorso unanime di tutti i soggetti politici e istituzionali.

Questo sommovimento tutto nostrano è stato anche implementato dal maturare delle tante istanze della glocalizzazione: la necessità di aprirsi sul mondo congiunta, comunque, con quella di recuperare le origini delle mille realtà localistiche. Da un lato si giunge all’Unione europea, dall’altro si invocano Carrocci e Serenissime! Si vanno così divaricando prospettive che, invece, dovrebbero marciare insieme. Un bambino che cresce rafforza la sua identità proprio nella misura in cui sa confrontarsi con altri diversi da sé! Altrimenti si alimenta l’autismo, se non la schizofrenia! Ed è questo che mi preoccupa quando un Borghezio non mi dà il buongiorno, ma la buona Padania!

Con questo 150° anniversario dovremmo essere capaci tutti di avviare un discorso serio su ciò che è nazione e su che cosa sono gli elementi che la compongono. I viva e gli abbasso portano acqua solo ai mulini secessionistici, come se la ricostruzione delle tante cinte murarie dei nostri Comuni ci garantisse da quei venti pericolosi che si sono abbattuti sulla Grecia… oggi… e domani? La complessità dei fenomeni socioeconomici oggi non la si affronta con sventolii di bandiere, tricolori o verdi che siano! Questo anniversario può offrire tante occasioni di studio, da un lato, e di riflessione e di iniziativa politica dall’altro. Gli storici facciano la loro parte e analizzino fino in fondo le complesse realtà dei vincitori e dei vinti del nostro Risorgimento. I politici procedano sulla strada delle autonomie al di qua delle enfasi federalistiche tout court che poco hanno a che fare con un progressivo e reale decentramento della nostra compagine costituzionale, istituzionale, amministrativa.

In un simile contesto i giovani devono svolgere un ruolo primario. E il “Sistema educativo nazionale di istruzione e formazione” può e deve svolgere un ruolo importante in questa difficile fase della nostra storia civile. Una realtà che si fa sempre più multietnica e multiculturale merita approcci attenti e mirati che vanno ben al di là di ogni retorica. Anche perché si è buoni cittadini del mondo se si è Cittadini nella propria Città! Gli studi sul Risorgimento non mancano: dalle intuizioni di Gramsci alle ricerche di Walter Maturi, Ettore Rota, Rosario Romeo, Aurelio Lepre, Lucio Villari. Tutti autori che non sono mai scaduti nella agiografia e che tanto ancora sono in grado di dirci. Gli antigaribaldini leghisti dell’ultima ora non hanno nulla da dirci più di quanto già sappiamo e di quanto i cittadini di domani debbono sapere… al riparo di qualsiasi retorica dei pro e dei contra, buoni per la politica spicciola, non per la formazione del Buon cittadino! La disciplina ora c’è, nuova di zecca, Cittadinanza e Costituzione: quale migliore palestra per un suo battesimo, ricco di contenuti di ricerca, di studio, di dibattito, di vita civile.

Maurizio Tiriticco

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