L’apprendimento non formale: il ruolo delle tecnologie digitali
Le tecnologie digitali hanno a che fare in vari modi con l'apprendimento non formale: come tema di studio, come strumento di insegnamento, come risorsa e come tramite organizzativo.
Le tecnologie digitali sono anzitutto un tema di apprendimento. Nei curricoli ufficiali sono presenti più o meno a tutti i livelli, raramente integrati nelle discipline tradizionali, con l’eccezione della matematica, più spesso confinati in angoli tecnologici.
L’obiettivo che prevale è la competenza nell’uso degli strumenti software di base. Per questo obiettivo, che è evidentemente uno dei più presenti nell’educazione informale e non formale, si mobilita l’intera società: amici e famiglie. E c’è anche un’offerta organizzata di associazioni e imprese, per esempio per la patente informatica. Infatti uno dei temi di discussione preferiti è se è vero che i ragazzi entrano a scuola sapendo già tutto, oppure se la scuola deve intervenire su queste competenze e come.
C’è un primo livello di competenza: la padronanza del meccanismo degli strumenti. Questa viene acquisita in modo informale dai ragazzi per le applicazioni che riguardano le necessità pratiche e i loro bisogni di socializzazione. Ma raramente acquisiscono informalmente una competenza sufficiente per strumenti che hanno a che fare con modi più evoluti di comunicazione e di lavoro intellettuale. Questo, almeno in forma di completamento e messa in ordine, è un compito che tocca alla scuola.
C’è poi un secondo il secondo livello di competenza ed è la capacità di dare un senso all’uso degli strumenti: risolvere problemi, comunicare in modo efficace, indagare, apprendere. Certamente questo livello solo la scuola lo può affrontare seriamente.
Le tecnologie offrono, fin dalla loro nascita, una proposta culturalmente e pedagogicamente più forte del solo uso degli strumenti e delle applicazioni: fare acquisire a tutti le nuove forme di pensiero contenute nella creazione informatica. E non solo perché sono parte integrante della cultura scientifica e tecnologica, ma anche, e soprattutto, perché sono il modo per reinterpretare vecchie istanze pedagogiche, come creatività, costruttivismo, interazione fra operatività e linguaggio.
Algoritmica e robotica sono i due temi-chiave. La prima proposta di Seymour Papert, il padre di questa prospettiva pedagogica, negli anni ’60, li conteneva entrambi: il linguaggio LOGO e le “tartarughe” a movimento programmato. Per ambedue, ma in particolare per la robotica, c’è un vasto movimento a carattere prevalentemente associativo e iniziative anche internazionali, come le gare di robotica.
La prima edizione europea della Maker Faire del 2014 a Roma, che si ripeterà quest’anno (16-18 Ottobre), è stata una impressionante conferma, per esibizioni e partecipazione, di questo movimento. La parte educational ha uno spazio dedicato e un call for schools garantisce l’esibizione di esperienze nazionali e internazionali.
Ma l’aspetto che più appassiona, anche con la perenne e troppo semplificata opposizione apocalittici/integrati, è ciò che succede ai giovani frequentando la rete. La nostra domanda è se, e come, questa frequentazione crea apprendimento. Nella rete in effetti si può apprendere in vari modi. Si può apprendere secondo modalità e-learning: corsi, forum di apprendimento cooperativo.
Le offerte sono spesso rivolte a pubblici specifici nell’ambito di organizzazioni. Ma anche quando esistono offerte “open”, non è facile che gli studenti vi siano indirizzati dalla scuola o, ancora meno, che lo facciano di loro iniziativa.
Spesso gli studenti usano la rete come risorsa per risolvere un problema pratico. A volte per acquisire conoscenze o per risolvere problemi cognitivi, nella maggior parte dei casi per compiti assegnati a scuola. In questo caso non si può parlare di apprendimento non formale: in fondo succede quello che è sempre successo con le enciclopedie, le biblioteche, i prontuari.
Le tecnologie digitali, però, amplificano enormemente lo spazio della ricerca, la sua varietà e la velocità di accesso. Questo crea un grande problema, che è quello di cui si discute di più: i rischi di dispersione, di superficialità, di acquisizione passiva di informazioni (il copiare), di soluzioni automatiche. Ma questo è un altro capitolo. Diciamo solo, sbrigativamente, che questi rischi si possono attenuare solo se i docenti imparano a dare compiti “a prova di internet”, impossibili da risolvere solo con procedure automatizzate, ricerche non ben finalizzate e semplici copiature. E questo dipende da che tipo di domande vengono rivolte agli studenti.
Ma l’uso che i ragazzi fanno della rete è molto vasto, imprevedibile e difficilmente catalogabile. Basta citare i siti di musica e film, i sistemi di messaggeria e di posta e, soprattutto, i social network. Anche in questo uso avviene l’apprendimento. Siamo nel campo dell’apprendimento informale, per lo più inconsapevole, ma non per questo trascurabile.
La scuola può tentare qualche forma di educazione alla responsabilità, alla scelta di fonti culturalmente più qualificate o, addirittura, all’uso intelligente di alcuni mezzi: perché non accorgersi che Facebook può consentire una comunicazione creativa, efficace, invece che confusa e banale? Ma sia chiaro che la scuola non può governare un fenomeno così complesso e ha solo il dovere di conoscerne la fenomenologia.
Un ultimo aspetto è l’uso della rete come strumento organizzativo e come tramite fra persone e istituzioni. Questo può avvenire in molti modi. Ma, proprio in relazione al problema dell’apprendimento non formale, vale la pena riferire l’idea, proposta nel recente rapporto STEM is everywere della National Academy Press americana: creare siti di intermediazione fra domanda, di singoli studenti o, più spesso, delle scuole, e offerta di occasioni e percorsi di apprendimento. Per esempio siti di questo genere potrebbero essere utili, a livello locale, per la domanda e offerta di stage.
Per approfondire: STEM is everywere
Immagine in testata di trainingjournal.com
Mario Fierli