Marc Augé, antropologo dei “non-luoghi”o della surmodernità
Teoria dei non luoghi
Ci ha lasciato durante l’estate alla soglia dei novant’anni uno dei più illustri antropologi del nostro tempo, Marc Augé, che è stato anche filosofo, sociologo, etnologo, urbanista e persino romanziere, dotato della rara capacità di farci capire di noi, del nostro tempo e del contesto planetario in cui viviamo.
La sua fama internazionale è legata soprattutto all’intuizione dei “nonluoghi”, il neologismo che lo ha consegnato alla popolarità. La sua passione e il focus privilegiato dei suoi studi di antropologia dei mondi contemporanei sono stati i nonluoghi delle metropoli – le sale d’aspetto di stazioni e aeroporti, gli autogrill, i centri commerciali, gli ipermercati e le catene alberghiere popolate dalla folla solitaria del turismo di massa e del consumo turistico globalizzato, i campi profughi -, spazi neutri di transito e attraversamento, identici ai quattro angoli del Pianeta, in cui confluiscono ogni giorno milioni di persone e dove il rapporto principale si svolge tra il luogo e l’individuo, non tra gli individui all’interno di questo luogo[1].
Tema centrale dei suoi saggi è, infatti, la solitudine delle metropoli e la difficoltà o impossibilità di relazione negli spazi artificiali realizzati per esigenze di scambio, dove l’individuo appare privo di identità; nonluoghi sempre troppo pieni di folla e troppo vuoti di abitanti, che mettono provvisoriamente in coabitazione individualità, passeggeri, passanti.
Augé ha elaborato una articolata “teoria dei non luoghi”, questi spazi topografici estranianti e deculturalizzati, dominati dall’assenza di storia, identità, relazioni, perché l’enorme afflusso non riesce a costruire relazioni significative e durevoli. In questi spazi particolari, spazi di transito pervasi da un senso di solitudine, che definisce spazi delle tre “C” – circolazione, consumo di massa e comunicazione – l’individuo diviene un utente, un cliente, un consumatore. Esplora le pieghe di questi spazi standardizzati, all’interno dei quali tutto è calcolato con estrema precisione e per ogni azione esiste una regola ben precisa che esprime una modalità d’uso, che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici e che sono proprio all’estremo opposto del “luogo antropologico”.
Uno per tutti Disneyland, dove tutti filmano e fotografano, perché si va a Disneyland per poter dire di esserci andati e fornirne la prova. Qui la maggioranza di visitatori non sono i bambini, ma gli adulti, a cui il parco è innanzitutto destinato e che provano piacere a introdursi negli scenari delle fiabe e a riprovare le paure dell’infanzia nella casa delle streghe o nell’antro del drago. Il viaggio a Disneyland è fare esperienza di visitare qualcosa che non esiste, uno spettacolo che viene spettacolarizzato, perché la scena riproduce quel che era già scena e finzione, la casa di Pinocchio o la nave spaziale di Star Wars. Qualcosa di affascinante per l’epoca in cui viviamo, che mette in scena la storia, ne fa uno spettacolo e derealizza la realtà[2].
Proprio perché non gli è mancato un brillante talento letterario, è riuscito a esprimere le sue teorie anche inventando un genere letterario, l’etnofiction, in cui grazie alla forma del racconto è riuscito a illuminare una realtà sociale dove le relazioni interpersonali e il senso dell’identità e dell’essere sono messi a rischio. Penso a “Diario di un senza fissa dimora”, storia di un funzionario che ha un lavoro, ma non guadagna più abbastanza per sostenere le spese e si trova così in maniera inaspettata di nuovo ai blocchi di partenza, costretto a svendere tutto, a vivere in auto, a vedere il suo quartiere in una prospettiva molto diversa, quella che si percepisce esclusivamente dal marciapiede e a provare la preoccupazione assillante di essere scambiato per uno che vive per strada[3].
O alla farsa politico-scientifica, in cui un brillante docente universitario deceduto nel 1978 si risveglia nel 2028, risuscitato dopo un esperimento nel campo della criogenizzazione e ricomincia a vivere in un mondo che non conosce e in cui le precedenti relazioni di parentela e amicizia risultano azzerate. Un umano strappato alla morte dalla scienza, che si perde nel labirinto dell’avvenire come un turista, certo privilegiato, ma definitivamente tagliato fuori da qualsiasi relazione autentica[4].
Con il passare degli anni la definizione di nonluoghi si è fatta più sfumata: molti luoghi stanno diventando paradossalmente non luoghi, mentre alcuni non luoghi acquisiscono progressivamente le caratteristiche di luoghi, ma soprattutto si assiste alla nascita di nuovi-luoghi, sia fisici che digitali.
Egemonia del presente
Negli ultimi decenni il presente è diventato egemonico e sottrae ogni spazio alla concezione di un processo di lenta maturazione del passato, arrivando ulteriormente a inibire anche l’immaginazione del futuro[5].
Le tecnologie sono promotrici della spontaneità e ci abituano a considerare che l’istante e l’ubiquità siano la norma. Augé non crede nella realtà degli spazi virtuali, né alle relazioni in rete, all’amicizia su Facebook e definisce la dipendenza dai cellulari una droga leggera; crede invece nell’incontro e nello sguardo in uno spazio e in un tempo dati.
Nei social media ci si trova, infatti, nell’ubiquità e nell’istantaneità, che non permettono di creare delle relazioni nel senso sociale del termine, in nonluoghi che generano una dipendenza ossessiva, nella perenne ricerca di visibilità e riconoscimento. I media nella loro forma attuale tendono a insinuarsi nell’intimità del corpo di chi li utilizza. Si vedono sempre più persone che sembrano dipendere quasi fisicamente dal cellulare, dal computer, dal mondo musicale che con le cuffie alle orecchie si portano in giro nel cuore della città come in viaggio. La dipendenza dai nuovi mezzi di informazione e comunicazione è ormai assimilabile a quella dagli occhiali o dall’apparecchio acustico.
Viviamo in un mondo dell’istantaneità e dell’immediatezza, perdiamo il senso del tempo, schiacciati dall’egemonia del presente, in una sorta di presente eterno. L’arte di calcolare il tempo, di prendersi il proprio tempo, al giorno d’oggi è un’arte sempre più ardua da praticare, a causa dei nuovi mezzi tecnologici che ci fanno vivere in un mondo di spontaneità immediata, nella dimensione dell’istantaneità.
Marc Augé è convinto che in questa istantaneità risieda un pericolo, perché le relazioni sociali richiedono tempo e la spontaneità individuale e collettiva, per quanto le si possano riconoscere anche delle qualità positive, come la sincerità o qualità affini, rischia però di sfociare anche in veri e propri disastri, in quanto non c’è niente di più spontaneo della violenza.
Per questo nella logica di un programma educativo necessario e urgente consiglia di mettere al primo posto l’arte di padroneggiare il tempo, vale a dire coltivare il desiderio di informare, di avere pazienza, di riflettere e di conoscere: “prendere tempo”, non soltanto nell’accezione di “non incalzare” e “non andare di fretta”, ma anche nel senso di “prendere in mano il tempo”, “gestirlo”, “padroneggiarlo” può consentire all’umanità di tenere sotto controllo le proprie inquietudini[6].
In una società in cui lo scarto tra i saperi specialistici di chi sa e la cultura media di chi non sa continua a crescere, in cui una parte maggioritaria del mondo non ha accesso all’alfabetizzazione e pertanto non è affatto in grado di comprendere che cosa sia in gioco nella ricerca scientifica, anche i sistemi scolastici sembrano concorrere a riprodurre all’infinito questa disparità: l’estrema utopia di oggi riguarda l’educazione, un accesso all’istruzione autenticamente e concretamente uguale per tutti, che certamente non corrisponde alle possibilità immediate, ma che può cominciare a muovere passi nella giusta direzione e a rivendicare un diritto al futuro, oggi negato all’umanità, sempre più attanagliata dal timore del futuro, che non è più per nessuno un’apertura sul sogno.
E l’educazione, secondo Augé, deve essere considerata in rapporto al tempo, essenziale nelle relazioni sociali, che hanno come dimensioni simboliche imprescindibili proprio lo spazio e il tempo.
Nuove paure
Paure da ricchi e paure da poveri, che incutono rispettivamente paura le une alle altre, in una sorta di continuo cambiamento di scala e incremento perenne del malessere generalizzato, fatto di stress, panico, angoscia e depressione.
Augé individua un tratto che lega tutte le diverse paure – la paura della guerra e del terrorismo, della morte, degli stranieri, delle polveri sottili, del futuro – e che consiste nel fatto che tutte sono oggetto di un intenso sfruttamento mediatico, che crea un accumulo di per sé artificiale, una sorta di fiction globale che mette angoscia proprio in quanto percepita come connessa.
Collettivamente, allertati ogni giorno dai media, tutti guardano al futuro con sfiducia, sempre che non cerchino di distogliere lo sguardo.
Il futuro è comunque nelle mani di coloro che lo vivranno e a loro spetta la valutazione di fondatezza delle nuove paure e anche la ricerca della speranza, una speranza su cui vale la pena di scommettere con fiducia umanista, che metta al centro l’interesse generico che ci unisce in una sorta di fratellanza universale.
[1] M. AUGE’, Non-luoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Eleuthera, 2009
[2] M. AUGE’, Disneyland e altri non luoghi, Bollati Boringhieri, 1999
[3] M. AUGE’, Diario di un senza fissa dimora, Raffaello Cortina, 2011
[4] M. AUGE’, Risuscitato!, Raffaello Cortina, 2019
[5] M. AUGE’, Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al nontempo, Eleuthera, 2009
[6] M. AUGE’, Prendere tempo. Un’utopia dell’educazione. Conversazione con Filippo La Porta, Lit Edizioni, 2016
Rita Bramante Già Dirigente scolastica, membro del Comitato Nazionale per l’apprendimento pratico della Musica