Uscire dal “donmilanismo”
Un dubbio. L’espressione assertivamente imperativa e il neologismo un po’ ardito del titolo – Uscire dal donmilanismo – si devono a un editing ad effetto o presentano una chiara e determinata posizione cultural/politica dell’autrice?
La “paginetta” avvalora la seconda ipotesi.
Le quattro fitte colonne che lacompongono declinano infatti in varie forme, e senza mai il sollievo di un dubbio, la condanna della resa della scuola italiana a assatanati nemici della cultura , invasati cultori dell’ ignoranza che hanno progressivamente devastato il fiorito giardino delle belle lettere,infestandolo delle erbacce di una incontenibile,sgrammaticata povertà lessicale e concettuale.
Su questo punto nulla ci viene risparmiato: dall’obbligato, ormai devoto omaggio al sempre citato “Segmenti e Bastoncini”(L.Russo, 1998), al rimpianto – quello sì condivisibile – per l’ ironia di Gaber, fino alla caricatura della psicologia del militante di sinistra, nella sentenza di Jean-Claude Michéa che lo riconosce colpevole del “vicolo cieco” in cui ci troviamo.
E poi scatta, sicura e sferzante, la denuncia.
Per Paola Mastrocola è Don Milani – e se non proprio e precisamente il prete di Barbiana, di certo il “donmilanismo” che ne è nato – l’ispiratore di tutti i mali che affliggono il lavoro dell’INSEGNANTE che, armato di matita rossa e blu, torna ancora una volta a snocciolare il solito stupidario.
Elenchi di errori e scempiaggini potrebbero essere ancora arricchiti da tutti quelli che frequentano, con responsabilità professionali, giovani studenti a scuola e nell’università , ma forse – si direbbe – potrebbero ancheessere utilmente interpretati, accompagnati da analisi, proposte, strumenti. Per ragionare, quindi, e non per cassare, per risolvere, e non per sentenziare . Additato il colpevole, può finalmente prendere il volo una narrazione intrisa di ideologia, che non corrisponde né al contesto storico dell’esperienza di Barbiana né al testodella “Lettera”.
Di qui la perentoria affermazione dell’insostenibile, cioè che nella scuola italiana – e nelle politiche scolastiche – sia rimasta pervasivamente viva e vitale, per ben mezzo secolo, la sua nefasta influenza. Archiviata o rimossa, infatti, ogni intenzione di capire, sfuggono immancabilmente gli elementi essenziali di quel libro, che forse vale la pena richiamare. Prima di tutto la sacrosanta denuncia delle colpe di una scuola,quella della professoressa che, brandendo la grammatica, caccia via e fa fuggire “Gianni”, tanto da renderlo irrecuperabile anche ad altre esperienze di socialità culturali significative ,“ i ragazzi che non volete” (pag. 19 dell’edizione originaria del 1967 ).
Denuncia purtroppo ancora attuale se si considerano i dati sulla dispersione scolastica, la percentuale dei NEET sulla popolazione 15-24enne che spesso ha al massimo fattosolo 8 anni di scuola, e che raggiunge il 22% .contro la media europea del 13% ( Eurostat 2015). L’indicazione molto seria, e scientificamente fondata, di un insegnamento linguistico capace di combattere la a-fasia intellettuale prodotta dall’accanito insegnamento preventivo della grammatica che antepone al racconto, alla parola viva,alla lettura, alla riflessione e alla discussione l’astratto rigore grammaticale della scrittura.
Un’abilità, e un impegno di studio, che devonoinvece trovare collocazione nella fase successiva,quando nasce il bisogno di conservare e comunicare, anche a chi non è lì ad ascoltare, il risultato dei pensieri ( pag.23) .Stupisce, inoltre, che non venga colta la vera e grande novità culturale dell’esperienza di Barbiana, la dimostrazione che proprio gli esclusi dall’ istruzione, itanti Gianni bocciati che la professoressa neppurericorda, forse perché non li ha mai guardati in faccia , siano stati capaci di utilizzare conoscenze provenienti daambiti diversi, sociologia, statistica, matematica , e poi anche il linguaggio dei grafici e delle immagini, el’interrogazione delle fonti istituzionali e degli addetti ai lavori.
Sono stati proprio quei ragazzi, infatti – la Lettera ne è testimonianza – che hanno costretto per la prima volta insegnanti, politici, opinione pubblica a leggere i dati che allora nessuno metteva in fila per offrire una rappresentazione organica e leggibile della realtà della scuola italiana, anche dopo la mitica riforma della scuola media unica ( 1962) . Oggi ci sembra ovvio che giornali, radio, televisione mostrino i grafici e le percentuali OCSE , Eurostat, Istat, ecc., ma nel 1967 quelle pagine hanno rappresentato una salutare “mazzata in testa” per chi cominciava a ragionare in termini ,né deamicisiani né punitivi, sul diritto all’ istruzione e cercava strade nuove per costruire esperienze di lavoro scolasticoricche e arricchenti di tanti e diversi saperi e strumenti. (pagg.143-159).
La Mastrocola è convinta che Don Milani , animato dall’odio di classe , abbia assaltato e contribuisca ancora ad assaltare la SUA scuola e, sorda all’ intelligente parodia di una scuola capace solo di riprodurre l’ingiustizia di una società che respinge i più deboli , si lascia sfuggire la lezione di fondo, “Perché è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli “ . La scoperta che la lingua fa uguali, perché è veicolo della responsabilità e della cittadinanza, forza e fa evolvere la parola stessa della Costituzione “Tentiamo di educare i ragazzi a più ambizione.
Diventare sovrani!”(pag.96). Nei cinquant’anni dall’esperimento e dagli insegnamenti di Barbiana, nella scuola italiana i cambiamenti, non tutti positivi e non tutti così profondi come sarebberonecessari per garantire a tutti una scuola insieme “di massa e di qualità”, sono stati molti. E numerosi sono stati anche i mutamenti del clima educativo e didattico interno alla scuola, talora più mode che autentiche svolte culturali,che ne hanno cadenzato le vicende. Alle diverse “retoriche”, e ai diversi entusiasmi “riformatori” che si sono via via alternati, non hanno quasi mai fatto seguito però interventi capaci di ridisegnare coerentemente e con continuità il profilo dell’intenzionalità educativa e le politiche concrete indispensabili a supportarne l’attuazione.
Riflettiamo sull’autonomia degli istituti. Da un lato funziona come terreno di coltura di mille fiori diversi, ma è anche rivelazione di smagliature e di differenziazioni vistose nei livelli di qualità del sistema.E di un insuccesso scolastico quasi sempre correlato con le condizioni socioculturali più problematiche, e con le aree territoriali più disagiate. Questo è solo un esempio dei tanti errori e delle occasioni perdute negli anni.
Ma anche per questo motivo riesce piuttosto indigesta la tesi – della Mastrocola – che attribuisce a un “donmilanismo” imperante, sostrato pedagogico evidentemente dotato di straordinaria capacità di radicamento per aver resistito pressoché indenne tanto tempo, le responsabilità uniche o principali di una scuola incapace di raggiungere i suoi obiettivi fondamentali. [ Ma mi facci il piacere , direbbe Totò!]. E’ vero, siamo lontani dal garantire a tutti la padronanza della lingua italiana, o meglio una sua capacità di utilizzo corretta dal punto vista ortografico,grammaticale e logico, ed anche l’apprendimento – il gusto e gli strumenti – della cultura umanistica (richiamata da Mastrocola, proprio come dai ragazzi di Don Milani, sotto la forma emblematica dell’Iliade nella traduzione sempiterna dell’ottimo Monti).
Indigesta, questa tesi, anche perché sono assai note, e largamente studiate, le contrarietà suscitate dalla “Lettera” nei due grandi campi culturali allora dominanti, quello cattolico e quello della sinistra istituzionale, che si combattevano anche sul terreno della scuola, e degli studi pedagogici. Non piaceva, e a lungo non piacque, il prete di Barbiana. Troppo trasgressista il suo “L’obbedienza non è una virtù” (1965), troppo aspra la denuncia di una scuola intenzionalmente classista, nemica dei contadini, degli operai, dei poveri.
Troppo imbarazzante, anche per il riformismo socialista che tanto aveva puntato sulla nuova scuola media. In tutti i campi, del resto, le forti sollecitazioni della “Lettera” a cambiamenti didattici radicali e, soprattutto, l’accusadiretta a un corpo professionale che non aveva ancora digerito l’”invasione dei barbari “ nella scuola, producevano inquietudini di vario tipo, che ben si erano e si sarebbero manifestate ancora nella discussione in parlamento e nel paese. E in studi che segnarono un’epoca, come “Le vestali della classe media “ di Barbagli e Dei (1969 ), in cui si rappresentava la resistenza di molti docenti alle profonde trasformazioni introdotte dalla legge istitutiva della scuola media unica .
Tutto ciò sembrava portare troppa acqua al mulino di una generazione che nelle università, e poi nelle scuole, ne contestava il profilo culturale e il funzionamento, esprimendo confuse aspirazioni insieme a chiare denunce, e che di Don Milani e dei ragazzi di Barbiana fece una bandiera. Fatti che non spiegano come si sarebbe prodotta, e proprio a partire dagli anni del riflusso e poi negli anni successivi, un’affermazione così solida e pervasiva nel mondo della scuola di quello che viene definito il “donmilanismo”.
Sarebbe l’unico caso di vittoria duratura di quella generazione di contestatori. Ha però ragione, Paola Mastrocola, a segnalare come una stranezza il ricorrente riferirsi dei ministri dell’istruzione, di qualsiasi parte politica, a Don Milani ( forse solo Gelmini, coerentemente, non si è fatta mai tentare ), ma non è una prova. E’ il sintomo, piuttosto, della diffusa percezione della distanza tra quanto la scuola universalistica promette e quanto, in Italia, continua a non realizzare. Percezione confermata da analisi, studi, dati che non consentono di far finta che il problema non ci sia.
Basti citare le diseguaglianze, che si ripresentano negli anni , nei risultati dei ragazzi frequentanti la scuola italiana nelle diverse realtà del paese, evidenziati nelle rilevazioni INVALSI e nelle indagini comparative dell’OCSE sui quindicenni. Dagliultimi dati disponibili di PISA ( indagine 2015) , che fotografa la distribuzione dei low performer quindicenni in Italia, nelle diverse macro aree geografiche, si rileva che, se nel Nordest, Nord ovest e Centro le percentuali si attestano tra il 12 e il 20%, nel Sud e nell’area Sud Isole il dato va dal 28% circa fino a più del 41% Sarebbe comunque preferibile che da parte di ministri e governi ci fosse meno retorica e più coerenza e che circolasse di più, nella scuola e nell’opinione pubblica, un pensiero culturale e pedagogico di alto profilo, laico, pragmatico, capace di misurarsi non solo col rapporto tra scuola, società, economia, ma anche con quello tra scuola e democrazia.
In Italia ci sono stati molti maestri, da Mario Lodi a Gianni Rodari a Alberto Manzi, tanto per citarne alcuni. Ma non abbiamo avuto un John Dewey, e in questa fase ci manca molto. Ma negare il contributo, anzi deformarlo rovesciandolo nel suo contrario, di Don Milani sulla padronanza linguistica come strumento di riequilibrio sociale, di pari opportunità, di cittadinanza, questo proprio non si può.
E neppure si può tacere sul fatto che ad insegnare italiano nelle nostre scuole siano andati e continuino ad andare anche docenti senza alcuna preparazione linguistica, che in molte realtà scolastiche si continui a sacrificare l’insegnamento linguistico a quello letterario, che in più di venti anni dall’ingresso nelle nostre scuole di molti bambini e ragazzi, che non hanno l’italiano come lingua materna, non siamo ancora in grado di assicurare le competenze professionali che occorrono.
Tanto meno si dovrebbe citare in modo improprio il documento GISCEL del 1975 – Le 10 tesi per l’educazione linguistica democratica- ispirate e sostenute dall’insegnamento di Tullio De Mauro, oppure continuare a identificare la cultura alta nella sola cultura umanistica. Non serve, una narrazione fatta così porta inevitabilmente fuori strada.
Fiorella Farinelli e Vittoria Gallina