Politiche e strategie per l’integrazione degli immigrati nel sistema di istruzione statunitense: Washington DC
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L'educazione non è un diritto, è un privilegio.
Sabato 3 giugno le prime pagine del Washington Post e del New York Times aprivano parlando dell’uscita degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima. Dopo due giorni fitti di appuntamenti lascio la capitale americana con l’immagine delle manifestazioni pro e contro questa scelta. Un altro solco tracciato tra i sostenitori e gli oppositori dell’attuale attuale amministrazione. In un Paese pieno di contraddizioni questa divisione politica oggi si coglie subito, forse per il timore che non sia ricomponibile.
Quanto sia importante l’unità lo sa bene un Paese che si trova ad avere circa 80.000 unità amministrative, tra le quali le più importanti sono il governo federale e 50 Stati. Il sistema americano ha da sempre avuto che fare con il contraddittorio rapporto tra la libertà individuale e delle comunità locali, incarnata dagli stati, e il governo federale, il luogo delle mediazioni e delle regolamentazioni che tengono insieme la società americana. Per comprendere il complicato sistema educativo americano e le politiche migratorie negli USA, è fondamentale lanciare uno sguardo sull’architettura istituzionale. Per questo il primo incontro a Washington, è quello con il professor John White, direttore del Life Cycle Institute.
Il programma ha inizio presso la White-Meyer House, un magnifico edificio del 1912, sede del Meridian International Center,.una Ong che si occupa di promuovere gli scambi internazionali di persone e di idee, alla quale si appoggia il Dipartimento di Stato per i programmi IVLP. Avevo concluso da pochi minuti le presentazioni con i miei compagni di viaggio: Luca Agostinetto, docente di pedagogia interculturale presso l’Università di Padova; Sabina Banfi, responsabile dell’ufficio politiche educative del Comune di Milano; Giulia Montefiore, responsabile rapporti istituzionali della English Playtime, Roma; Marilena Novellino, fiduciaria della dirigente presso la scuola elementare C.Pisacane di Roma. Scoprirò con grande piacere nei giorni successivi la grande complementarietà di questo gruppo.
La nostra “chiacchierata” con White ci porta rapidamente nel vivo delle questioni per le quali siamo venuti negli Stati Uniti. Negli Usa esistono delle municipalità, chiamate città santuario, che si sono autoproclamate territori nei quali non si applicano le leggi nazionali sull’immigrazione. Il governo nazionale minaccia di non finanziare più questi comuni, le cui economie hanno nei migranti un’importante fetta di manodopera. La diatriba istituzionale sarà probabilmente risolta dalla Corte Suprema come spesso avviene in questi casi. Quello che mi preme sottolineare è quanto sia alto il livello di scontro in atto negli USA sulle politiche migratorie.
Negli Stati uniti ci sono circa 12 milioni di clandestini e altrettanti regolari, mentre tutti coloro che nascono sul territorio americano grazie 14º emendamento alla Costituzione diventano cittadini. Oggi la gran parte del flusso migratorio proviene dall’Asia e dei paesi del Sudamerica, da dove spesso le situazioni di conflitto portano le persone alla richiesta di entrare nel Paese come rifugiati.
Non avendo l’esposizione costiera del nostro Paese gli Stati Uniti effettuano tutti i controlli per i rifugiati a monte, quindi quando un rifugiato mette piede sul suolo americano la sua richiesta è già stata accolta, minori compresi. Questo non significa che i migranti non arrivino comunque anche clandestinamente. Se ciò accade e vengono scoperti, minori o adulti, vengono riportati al confine. Quelli che oggi non arrivano più invece sono i messicani: la crisi economica anzi sta provocando il fenomeno del ritorno in patria.
Negli Stati Uniti, come in Italia, la politica migratoria è un tema che crea fortissime divisioni spesso ideologiche o di convenienza politica. Da un lato chi ha interesse a mantenere il paradigma securitario ben presente nelle paure dell’opinione pubblica, dall’altro i più pragmatici sostenitori dell’integrazione prendono atto che già oggi più del 50% dei bambini sotto i cinque anni non provengono da famiglie bianche e che il problema degli USA non è la migrazione, ma la natalità.
“In America l’educazione non è un diritto, è un privilegio”. Questa affermazione che sentiremo qualche giorno più tardi all’Università di Salt Lake City è illuminante. Il senso restituisce fino in fondo la matrice culturale e legislativa sulla quale si fonda il sistema educativo americano. L’istruzione, come anche la sanità, non è citata in alcun articolo della Costituzione.
Il governo federale quindi contribuisce solo per il 10% al budget nazionale per l’educazione, concentrando la maggior parte dei propri finanziamenti sulle cosidette aree a rischio e le categorie in difficoltà. Il resto della spesa per il sistema educativo è a carico dei singoli stati e, solo in minima parte, degli enti locali. Stati che quindi definiscono in maniera assolutamente differenziata le risorse da destinare al sistema e gli standard didattici ed educativi. Solo per fare un esempio ci sono stati che iniziano la scuola dell’obbligo a cinque anni altri a sei, stati che la finiscono a 16 altri a 18.
Un altro elemento fondamentale per capire le dinamiche del sistema è legato al fatto che le scuole pubbliche vengono finanziate con le tasse dei cittadini sulle proprietà locali, in particolare la casa. Le scuole americane hanno quindi una forte tendenza a riflettere i valori educativi e le capacità finanziarie delle comunità in cui si trovano. Va da sé che una comunità povera avrà una scuola che fornisce scarse opportunità, esattamente il contrario di quanto avviene per una comunità ricca. Sono questi i casi in cui il governo federale interviene nel sistema educativo con una funzione compensativa, con varie modalità che incontreremo più avanti.
La situazione dei nidi e delle materne è del tutto simile alla nostra, ha costi alti e spesso a quasi totale carico delle famiglie: tranne che per la permanenza a scuola, che qui si può protrarre fino a 12 ore per andare incontro alle esigenze di lavoro dei genitori.
Esiste, negli stati dove l’obbligo inizia a 6 anni il pre-kindergarden, una sorta di anno ponte non obbligatorio che prepara i bambini alla scuola primaria.La scuola dell’obbligo dura 12 anni, infatti viene chiamata K-12. La divisione tra ordini scolastici è in linea di massima simile alla nostra, ma è differenziata tra gli stati. Quasi tutte le domande sul sistema educativo americano avranno come risposta “it depends”. Ed è su questa frammentata realtà che scherziamo mentre ci dirigiamo verso il nostro primo contatto diretto, la Briya Public Charter School.
Fabio Rocco