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Politiche e strategie per l’integrazione degli immigrati nel sistema di istruzione statunitense: perchè parto

Pubblicato il: 06/06/2017 16:50:43 -


Education2.0 ha deciso di seguire con un diario di viaggio atipico l’esperienza di Fabio Rocco, docente presso una scuola primaria del nord Italia e selezionato nell programma I.V.L.P. organizzato dall'Ambasciata americana in Italia.
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L’obiettivo del programma I.V.L.P. (International Visitor Leadership Program), gestito negli USA dal Bureau of Educational and Cultural Affairs (che riceve le segnalazioni dalla ambasciate di tutto il mondo), è di realizzare visite di breve durata negli Stati Uniti, nelle quali figure emergenti in vari campi scambino esperienze e coltivino relazioni durature con le loro controparti americane, concentrandosi su interessi professionali specifici.

L’oggetto di questa visita in particolare è lo studio dell’integrazione in classe per gli alunni migranti.

Da dove parto

Mi chiamo Fabio Rocco. Sono maestro di scuola primaria dal 1999 e ho svolto il mio “anno prova” presso la scuola Giovanni XXIII, nel quartiere Stanga, a Padova. Sono arrivato senza aver mai fatto neppure un giorno di supplenza ad insegnare in un contesto che già all’epoca alcuni colleghi mi descrivevano come difficile perché di “frontiera”. In quel momento infatti da una decina d’anni l’Italia era diventata terra d’immigrazione. Siamo negli anni del Nordest locomotiva economica del Paese, in luoghi nei quali la manifattura aveva in blocco sostituito l’agricoltura, trasformando in meno di un quarto di secolo il Veneto da terra di emigranti a terra di benessere.

La richiesta di manodopera delle piccole e media imprese era altissima e l’arrivo dei migranti divenne presto un elemento che da eccezionale assunse caratteri di stabilità. Nel Nordest italiano l’insediamento tipo della migrazione nella prima fase è stato quello della spontanea dispersione. La scarsa segregazione territoriale ha però anche creato spazi dove la coabitazione tra immigrati e fasce di popolazione autoctona amplificava la percezione di paura e insicurezza sociale, rischiando di sovrapporre tensioni sociali ed etniche oppure rischiando di creare una nuova concentrazione della miseria.

Così, seppure come caso isolato nel triveneto, il ghetto è nato comunque. Anche a Padova è nato per il rifiuto ad alloggiare altrove venuto dagli autoctoni ed è proliferato nel suo aspetto criminale per la grande (e opulenta) richiesta presente a nordest di sostanze illegali. Così è nata via Anelli. Si trattava di un addensato di circa mille persone provenienti da ogni parte del mondo residenti in sei condomini, con densità abitative altissime e condizioni di vita molto conflittuali. Qui accanto allo spacciatore vivevano le famiglie con i bambini che frequentavano la nostra scuola, oppure tra un piano e l’altro nascevano ristoranti e parrucchieri: un microcosmo vero e proprio. Il “Bronx” lo chiavavano i media, altri lo definivano un centro di prima accoglienza “spontaneo” (da quei palazzi passò moltissima migrazione in transito per tutta Europa).

Il complesso e la strada daranno per un periodo il nome al rione stesso, come sinonimo di degrado e di criminalità. La zona è divenuta famosa per un “muro”, che altro non è che una barriera di lamiera alta tre metri e lunga novanta tirata su nel 2006 per impedire agli spacciatori in fuga di evitare i controlli delle forze dell’ordine. Eppure, una campagna mediatica imponente portò la vicenda dalla stampa locale al Guardian, Al New York Times, alla BBC. La vicenda muro avvenne mentre dal 2005 il complesso era progressivamente “spopolato” dall’amministrazione comunale. In prospettiva doveva esserci una riqualificazione che oggi non è ancora avvenuta a causa della forte resistenza dei proprietari (molti dei quali notabili del Veneto) che vorrebbero, dopo aver lucrato sugli affitti stellari per quasi vent’anni, dare corpo ad appetiti speculativi.

É proprio nel 2005 che sono tornato alla Giovanni XXIII e ci sono rimasto fino ad oggi, ad insegnare matematica, scienze e tecnologia. Ma soprattutto osservare, capire e provare ad affrontare la trasformazione che ormai aveva “inchiodato” il quartiere. Oggi gli italiani di seconda generazione sono la parte stabile della scuola, hanno un solo enorme limite, nati e cresciuti nel nostro paese non avranno la cittadinanza: un diritto “negato” che nei fatti è già realtà quotidiana. Con colleghi, alunni e molte famiglie abbiamo quindi provato a riscrivere il nostro libro, quello di un quartiere e di una città. Se al crescere eccessivo dell’omogeneità sociale di una comunità corrisponde spesso un abbassamento del livello di coinvolgimento civico, nell’eterogeneità si tende a moltiplicare l’impegno comunitario e collettivo. Così oggi il quartiere è ad punto di svolta perché alcuni attori sociali e culturali del territorio, coloro che hanno resistito alla fase più difficile, tra questi soprattutto le scuole, motivati dall’impegno per il quartiere dei suoi più giovani abitanti, stanno guidando una vera e propria “riscossa”.

Il nostro lavoro, raccolto nel geoblog L’isola del tesoro, nel libro cartonero Fogli di Viaggio, nel lavoro che abbiamo messo in campo negli ultimi cinque anni, hanno dato il via ad un crescendo di relazioni nel quartiere, ma anche nel resto della città e perfino nel resto d’Italia. Le recensioni in numerose riviste delle nostre esperienze scolastiche, la nostra partecipazione come relatori e formatori a convegni, fino alla presenza di un intero capitolo sull’esperienza della nostra classe nel libro di Benedetta Tobagi “La scuola salvata dai bambini” sono stati solo l’inizio. Da quest’anno scolastico, grazie ad un importante turn over di docenti, anche la secondaria di primo grado si è fatta contaminare ed ha dato avvio a corsi pomeridiani per ragazzi di teatro, cucina, un mercatino di libri che ha come obiettivo finale una biblioteca talmente fornita da diventare un luogo di prestito di libri per tutti i cittadini del quartiere. Siamo riusciti a lavorare per dare compimento ad un obiettivo che è didattico e sociale al contempo: ridare fiato e speranza ad un pezzo di città, eliminare la stigmatizzazione del quartiere, definire nuovi metodi educativi di integrazione e di coesione per una comunità. Oggi non sono più nascosti i tesori della Stanga, stanno emergendo e verranno proposti alla città con un evento che si terrà proprio nel parco delle scuole la mattina di sabato 10 giugno: un autentico “giro di boa” simbolico.

Perché parto

È in questo quadro che abbiamo quindi “ospitato” da ottobre nella nostra classe una dottoranda americana, Barbara Ofosu Somuah. Nata in Ghana, da quando ha nove anni vive a New York, ha vissuto sulla sua pelle l’esperienza migratoria ed ora è venuta in Italia, proprio per studiare l’esperienza degli studenti immigrati nelle scuole italiane, a esplorare le strategie di apprendimento messe in campo dagli insegnanti e applicate in modo specifico alle classi multiculturali. Barbara, nei sui contatti con il consolato americano di Milano, ha quindi colto l’interesse delle autorità statunitensi per la situazione migratoria nel nostro Paese, con una lente d’ingrandimento sulle scuole e sulle prospettive dell’educazione interculturale.

Dove vado

In questo caso il programma negli Usa che mi vedrà protagonista di questo diario di viaggio dal 31 maggio al 10 giugno ha come obiettivi: osservare come le scuole americane integrano e sostengono gli studenti delle famiglie immigrate, esaminare iniziative di inclusione della comunità che sostengono direttamente o indirettamente gli sforzi delle scuole locali per aiutare gli studenti migranti, esplorare la diversità e la formazione multiculturale per insegnanti e amministratori. Non si tratta solo della prima esperienza di Ivlp su questi argomenti. Sono molte altre le particolarità di questo specifico programma: si tratta di un viaggio “on demand”, nel senso che, non solo i temi più specifici del viaggio, ma anche le realtà che visiteremo, sono state individuate su proposte dei partecipanti. Avevo chiesto espressamente di poter vedere le realtà periferiche, l’America profonda e il suo rapporto con l’immigrazione, di entrare nelle classi, mi piaceva perfino l’idea di gestire un collegamento Skype tra degli studenti americani con i miei alunni. Le richieste sono state accolte di buon grado e ne è emerso un programma di forte contatto con esperienze sul “campo”. È nato così un progetto fitto di incontri a contatto con istituzioni locali ed educative, realtà scolastiche e governative, comunità straniere e Ong, in 3 città diverse: da Washington DC a Salt Lake City a Detroit. La capitale è tappa scontata dei programmi Ivlp, ma nel nostro caso sarà di primario interesse il confronto e la conoscenza con il sistema scolastico e con la complessità di amministrare l’educazione in uno paese federale, con forti differenze tra singoli stati. La seconda tappa è una città delle dimensioni di Padova, Salt Lake City, la capitale dello Utah, città di forti contraddizioni, un tessuto culturale conservatore e l’amministrazione cittadina decisamente liberal. Si tratta di uno stato carente di manodopera che ha un costo della vita mediamente più basso del resto degli Usa, pertanto è divenuto uno snodo migratorio importante, magari come tappa per dirigersi verso altre parti del Paese. Infine Detroit, la città dell’industria automobilistica che oggi vive gli effetti più evidenti di una crisi economica che ha svuotato interi quartieri e gettato una parte della popolazione in una situazione di disoccupazione strutturale. Parto dalla convinzione che il grande punto di forza degli Usa sia il fatto di essere un Paese di immigrati, dove chi nasce diventa cittadino, eliminando quindi la discriminazione di “diritto” che grava sui nostri alunni figli di genitori stranieri. Voglio anche però vedere se il sistema multiculturale delle comunità chiuse che convivono, perché nella nostra esperienza la prospettiva che si intravede è sicuramente quella più ambiziosa di una comunità nuova, che abbia orizzonti ampi e confini labili. Oggi in Italia le scuole multietniche sono il luogo del futuro e credo che il confronto con la diversità sia la più grande opportunità i cittadini italiani possano dare ai loro figli . Così da questo viaggio mi aspetto di avere un’idea di quello che potrebbe essere il nostro futuro fra 50 anni, con una migrazione stabile e un sistema educativo più attrezzato all’integrazione. Con me porterò le esperienze di molti altri insegnanti che in Italia vivono situazioni simili alla mia. In questa occasione ho sicuramente molto di più da imparare che da insegnare.

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Fabio Rocco

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