Politiche e strategie per l’integrazione degli immigrati nel sistema di istruzione statunitense: ep.7/7 Detroit

Su Detroit si potrebbe scrivere più di un libro. Come la definisce Marilena Novellino “una città affascinante e piena di contraddizioni”, riscontrabili immediatamente osservando i dati e ancor meglio passeggiando per la città. È il principale centro del Michigan, storica capitale dell’industria automobilistica statunitense, dove si può ancora “correre” sulla prima strada asfaltata al mondo. L’80% degli abitanti di Detroit è afroamericano, per una città che oggi conta 677.000 abitanti, ma che nel 2000 ne aveva 950.000. La crisi economica ha infatti ridotto i posti di lavoro causando lo spopolamento di circa un quarto della città. La fuga di abitanti continua a ritmi decisamente più contenuti, anche se ancora oggi interi quartieri rimangono abbandonati. Nel 2013 il comune ha vissuto la bancarotta più grande della storia delle città americane.
Nonostante tutto nell’area metropolitana di Detroit, dove vivono 4,3 milioni di abitanti, si produce ancora il 25% delle auto statunitensi. Qui coesistono i quartier generali di Fiat-Crisler, General Motors e Ford, quest’ultimo è situato nella città periferica di Dearborn, al centro della zona con la più alta concentrazione di residenti provenienti dal Medio Oriente di tutti gli Usa.
La mattina del primo giorno in città arriviamo all’Academy of the Americas, una scuola pubblica con 950 studenti dalla materna alla superiore. Il preside Nicholas Brown e la sua vice, Michelle Ezop, passeggiando per le classi ci descrivono il modello di bilinguismo “90/10”, un approccio in cui si parte con il 90% di corsi in lingua madre della maggioranza degli studenti, lo spagnolo, e solo il 10% di corsi in inglese. Con la progressione dei gradi d’istruzione l’inglese viene aumentato fino al quinto anno di scuola dell’obbligo, raggiungendo il 50% per ognuna delle due lingue.
Detroit ha le stesse regole delle città santuario, anche se formalmente non lo è, ma i clandestini che lavorano fuori città rischiano quotidianamente la deportazione. Il quartiere della Academy è povero, il 60% degli alunni ha il pasto pagato dal governo federale. Così il preside Brown ci racconta anche come possa accadere, da un momento all’altro, di trovare in classe un banco vuoto: il rimpatrio immediato dei genitori comporta anche quello dei loro figli.
In questa scuola insegnano 45 docenti, lavorano 8 ore al giorno e sono pagati 35.000 dollari lordi l’anno, al primo incarico, meno di quanto percepiscono a Washington o Salt Lake City, circa 45/50.000 dollari l’anno. Ovviamente a queste cifre va tolto il 25% di tasse e l’assicurazione sanitaria, oltre a dover essere parametrizzate al costo della vita.
Passiamo dalla Hamtramck Public School per dirigerci poi alla Wayne State University, Dipartimento di Educazione, dove la prof. Sandra Gonzales e il suo staff attuano le ricerche sulla base delle quali operano molte scuole con approcci bi-linguistici avanzati. Inizia parlandoci di Detroit come un diamante non levigato, con storie e facce molto diverse. Alcune le racconta: la Academy of the Americas, che abbiamo visitato quella mattina, potrebbe chiudere e con essa molte altre scuole pubbliche dove si sperimenta il bilinguismo. Questo perché questo tipo di scuola ha costi più elevati e i test nelle scuole di questo tipo nella fascia primaria hanno risultati mediamente inferiori, perché i bambini stanno imparando a leggere scrivere in due lingue. In realtà i benefici del bilinguismo si fanno sentire nei gradi d’istruzione successivi. Nelle altre scuole, di converso, soprattutto le charter, gli studenti hanno inizialmente risultati più alti alle valutazioni delle scuola primaria, ma spesso scendono alle scuole medie e tra questi è più forte il fenomeno dell’abbandono scolastico. Gli standard nelle scuole furono introdotti dall’amministrazione di George W.Bush e sono ancora oggi gli stessi: insistono sulla lingua inglese, gravando invece sul plurilinguismo. Gli studenti al terzo anno elementare fanno un esame senza il quale non si prosegue. A Detroit c’è molto caos legato alla presenza di numerose Charter Schools.

 

 

Le scuole pubbliche rischiano di chiudere, perché le charter hanno più risorse ma programmi meno avanzati. Le corporations investono nelle Charter ma la loro unica priorità è il profitto.
La prof. Gonzales, come Gerardo Lopez, anche ritiene che gli insegnanti abbiano un ruolo fondamentale nel determinare una prospettiva di maggiore giustizia sociale e nel rovesciare la prospettiva attuale di una scuola che ha destoricizzato le differenze. Ci ricorda come ad esempio i nativi americani quando arrivano a scuola non imparino la loro storia. Gonzales cita anche una versione dei tre porcellini dove la storia è vista dal punto di vista del lupo: applicare all’educazione la storia vista dalla parte dei vinti.

Uscendo discuto con Giulia Montefiore del fatto che in questo momento gli USA sono a un punto di svolta. L’assimilazionismo ha fallito. Ora serve una prospettiva di integrazione nuova sul piano educativo per questo Paese, una prospettiva che non prenda solo atto del multiculturalismo, ma che persegua con maggiore convinzione la strada di una maggiore coesione culturale.
Il giorno dopo siamo entusiasmati dalla visita alla FLICS (Foreign Language Immersion and Cultural Studies School). Qui il preside Todd Loise e il suo vice Jean-Daniel Ostertag ci raccontano come l’inglese degli afroamericani del quartiere non sia quello accademico che serve agli esami. Per questo il loro lavoro è impegnativo, ma anche per questo insegnano per due ore al giorno con docenti madrelingua una lingua straniera a scelta tra giapponese, cinese, francese e spagnolo. Questo modello d’immersione linguistica che va dalla materna alle superiori, aiuta gli studenti a comprendere e apprezzare la diversità culturale e garantisce il successo scolastico agli studenti. Lo confermano anche i genitori, che incontriamo nella sala insegnanti della scuola. Anche loro sono coinvolti: gestiscono attività, hanno un comitato (il presidente è un parlamentare), promuovono un gruppo di miglioramento della scuola.

La scuola ha più domande di accesso che posti disponibili, quindi è a numero chiuso. Credo non dimenticherò mai l’esperienza di vedere una classe di bambini di scuola materna, tutti afroamericani, che cantano e rappresentano una filastrocca cinese.
Dopo un incontro con il Distretto di Oakland, siamo invitati a cena. É l’ultima sera, Mariana Martinez e Thierry Boulic sono i nostri ospiti. Lei è assistente della vicepresidente di una importante Fondazione; lui, francese, è un ingegnere del settore auto. Nonostante il barbecue sia interrotto dalla pioggia, la cena ci delizia e la serata è davvero piacevole, discutendo di politica, musica e…Detroit.
Ciò che ho visto, sentito e imparato nei dieci giorni di questo viaggio riguardo agli USA, sulla scuola e sull’integrazione, è di sicuro molto di più di quanto potessi immaginare alla partenza. Il diario mi ha aiutato a rimettere insieme le idee. Ora, vorrei provare a metterle in pratica in Italia. Assieme ai miei compagni di viaggio, ognuno a suo modo, ognuno nel proprio ambito, lo faremo. E credo lo faremo anche insieme a molti altri…ma questa, in fondo, è già un’altra storia!

Fabio Rocco