Le STEM si tingono di rosa (prima parte)
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Mestieri, professioni e stereotipi di genere.
Quando i miei figli frequentavano la scuola dell’infanzia, la maestra insegnò loro una canzoncina sui mestieri, che diceva così: “Verde è il mio colore preferito, verde è tutto quel che ho, viva il verde e lo sai perché? Il mio miglior amico un giardiniere è!”. E così via, la cantavamo in macchina, passando in rassegna i mestieri più diversi: verde giardiniere, rosso pompiere, bianco dottore, blu aviatore. Ma il rosa che mestiere è? Il rosa si ottiene dal rosso e dal bianco, è un mestiere che doma le fiamme e cura le ferite. Il rosa è l’insegnante. Perché la conoscenza è fiamma sempre viva e pericolo di incendio e l’apprendimento è un percorso accidentato, pieno di ostacoli, con infiniti sentieri, alcuni in piano e ben tracciati, o in quota da percorrere in cordata, altri impervi e inesplorati. Ma sempre le giovani menti hanno bisogno di una guida che li aiuti a mantenersi sul tracciato o ad intraprendere nuove strade.
Se dunque l’insegnante è rosa, e rosa è il colore tradizionalmente associato al genere femminile, con un semplice sillogismo concluderò che fare l’insegnante è un mestiere da donne. Bella scoperta! Basta scorrere le graduatorie ministeriali od osservare il portone di una scuola per giungere alla stessa conclusione. Ma proverò ad andare in profondità superando la freddezza delle statistiche e la banalità dell’osservazione casuale per entrare negli animi di queste insegnanti. Nella scuola in cui lavoro siamo in molte e in molte insegniamo discipline tecnico-scientifiche, le STEM. Siamo ingegnere (plurale di ingegnera?), matematiche, fisiche, chimiche, biologhe. Cosa ci accomuna? Quali caratteristiche emergono nel nostro lavoro quotidiano? Certamente una solida preparazione nelle discipline di insegnamento, una naturale predisposizione a prendersi cura degli altri, un rigore intellettuale che ci permette di affrontare le sfide della modernità e le metamorfosi generazionali dei nostri allievi. Ma più di tutto la capacità genetica di comunicare, ascoltare, conciliare, prevenire, gestire, regolare, organizzare, pianificare, fatti e persone, nello stesso tempo e su più fronti, in un processo multitasking e multiutente. E lo facciamo da anni e prima di noi, anche se in altri contesti, lo facevano le nostre madri e le nostre nonne. In altre parole tutte quelle capacità che il mestiere di insegnante richiede di mettere in campo, noi donne ce le abbiamo.
E poi noi insegnanti “sappiamo”, conosciamo bene l’oggetto del nostro insegnamento: le scienze, le tecnologie, la fisica, la matematica assumono in ambito scolastico una connotazione nuova. Non sono finalizzate alla scoperta, all’invenzione e al profitto che può derivarne, ma hanno la funzione di formare le menti, di “imprimere un segno” come vuole l’etimologia latina del termine, l’insegnante è colui che “lascia il segno”, metaforicamente, nelle menti degli allievi.
E questo processo a scuola è condotto prevalentemente nei laboratori laddove la “pratica” apre la strada alla formalizzazione della “teoria” e dalla “teoria” deriva il “modello”, che astrae ciò che la pratica ha consentito di sperimentare.
Claudia Angelini