E’ in gioco il potere

A luglio scorso a Bologna, l’MCE il Movimento di Cooperazione Educativa che studia e propone le metodologie educative di Freinet, ha svolto il Festival “Cantieri MCE”, quattro giorni di esperienze, confronti, riflessioni che ha riunito un centinaio di insegnanti intorno al tema: “Gioco e potere. Condividere regole per s-catenare la scuola”,

Come rappresentante del Movimento Cemea (Centri per l’esercitazione ai metodi dell’educazione attiva) che condivide con l’MCE il testimone dell’educazione attiva in Italia, mi è stato chiesto un intervento e ho voluto affrontare il tema “E’ in gioco il potere” per analizzare da una parte la profonda natura del Gioco e andare a verificare cosa significa proporre i giochi in ambiente scolastico. Il mio assunto era che saper proporre giochi ha il potere di costruire spazi di libertà e diversificazione dei comportamenti, delle emozioni, delle esperienze, che fa lievitare e impasta il gruppo sociale.

La questione del gioco la vediamo sempre a partire dal divertimento, dallo scatenarsi del corpo, ma nel gioco si scatenano pulsioni, passioni, desideri che sono una parte profonda del nostro essere umani che va conosciuta per potersi attrezzare a “reggere il gioco” per poterlo proporre consapevolmente e viverlo a pieno. 

Quando attiviamo il gioco entriamo in una dimensione psichica, legata al sacro, che riporta nella quotidianità i destini che potremmo, avremmo voluto, non vorremmo mai vivere. Il gioco fa muovere sentimenti forti, è legato al dolore, alla morte, ci serve per esorcizzare quello che sappiamo di non poter evitare. Il gioco porta nelle sue parole questi destini: giocando a campana se tocco la linea è “brucio”, in cima alla campana c’è il paradiso. C’è un piccolo gioco che permette a chi sta in mezzo di dire in faccia agli altri giocatori “Ti voglio, non ti voglio, voglio proprio te!”  Ma quando mai possiamo andare in giro a dire queste cose? Nel gioco è possibile. 

La dimensione del gioco è più profonda dei “giochi”, ci serve di essere attrezzati per poterla affrontare, ci parla di qualcosa che serve all’uomo per risolvere alcune delle angosce più persistenti, risolve ad esempio la domanda di come morirò. Se gioco a Piastra Buriolo e l’altro dice “Morte a Claudio” e poi colpisce il barattolo, ecco che sono morto, ma nella vita questo invece è un mistero angoscioso.

È importante per noi sapere che sempre, quando giochiamo, liberi e spensierati in classe, nei campi, in giardino, stiamo maneggiando questa forza profonda, stiamo lavorando in una “dimensione psichica” speciale che è “più” di quanto riusciamo a realizzare.

Il gioco è uno strumento educativo intergenerazionale, che può favorire la messa in comunicazione e relazione anche tra grandi e piccoli e favorirne il dialogo e lo scambio; a Scuola, quando vediamo giocare con noi anche le insegnanti, in cerchio, si annullano le gerarchie e i bambini possono fare un’esperienza alla pari con i grandi, che permette di guardare all’altro come persona e rinsalda il gruppo e aumenta la fiducia, accorciando le distanze.

Serve a favorire la costruzione di gruppi, a uscire dall’isolamento e a prendersi un po’ in giro, poco sul serio, mettersi in ridicolo, con autoironia, favorisce la nascita delle relazioni perché si condivide un’esperienza “altra”, unica e originale, staccata dal contesto e dalla vita di tutti i giorni, ma in cui siamo comunque noi, dove mettiamo in gioco parti che normalmente non mostriamo.

È liberatorio, serve a sciogliere e a sperimentarsi attivamente, quindi è uno strumento di attivazione e messa in gioco che può avere risvolti educativi a 360 gradi e coinvolgere anche altre sfere della vita personale: per un adolescente l’esperienza della messa in gioco e della sperimentazione attiva, del fare “come se…” nel gioco di ruolo, può aprire la via alla presa di parola, alla possibilità di rischiare per esprimere le proprie idee. In questo senso può diventare anche uno strumento politico, come ci ricordava Cecrope Barilli, uno dei fondatori del Cemea italiano, perché aiuta i giovani a provarsi, a vivere, nel mondo protetto del gioco, anche il mettersi a nudo, in ridicolo, sbilanciarsi, esporsi, e poi li riconsegna a sé stessi, nella vita quotidiana, con un sentimento aumentato di autostima, che aiuta a sentirsi parte integrante della comunità e a credere nella propria possibilità di incidere sul contesto.

Giochi collaborativi aiutano a sperimentare relazioni più pacifiche, senza l’ossessione della vittoria, del risultato e fanno sperimentare l’importanza del processo, con un portato educativo molto diverso e più accogliente della competizione che ci impone il sistema produttivo e la società. Nei giochi della tradizione si vince insieme, e quando si perde si cambia ruolo ma all’interno del gioco, prendendo responsabilità diverse all’interno del gruppo, nessuno è escluso.(tratto da un testo di Sarah Parisi, Assistente sociale e educatrice Cemea)

L’essere umano è di una complessità stupefacente, ma le strutture che organizza sono ordinate secondo linee di potere molto semplificate, con gerarchie rudimentali, che prendono in considerazione pochi elementi alla volta, e fatalmente dividono campi che in sé sono uniti. Parlando di gioco e educazione dobbiamo considerare sempre il potere insito alla gerarchia che fatalmente, per preoccupazioni legate alla sicurezza, all’organizzazione del lavoro, all’attenzione all’ordine, blocca una parte dell’espressione di sé, di quell’eccedenza di senso che il gioco garantisce.

Quando mettiamo il gioco all’interno di un sistema organizzato creiamo un contro movimento che mette a rischio il sistema, lo interpella e in qualche modo lo scardina. Portare il gioco a scuola necessita una nostra preparazione, bisogna essere attrezzati per potersi permettere questa incursione; ogni spazio ha le sue funzioni nella scuola e la gestione è impostata a generare il minor impatto possibile. Allora il gioco disturba e mette a rischio, provoca reazioni e attiva limitazioni da gestire, ma come ci ricorda sempre Anna D’Auria, se vogliamo essere “militanti di un cambiamento” dobbiamo saper mettere al servizio della nostra azione la tenacia della ricerca e tutta la nostra capacità di attenzione. 

Quello che mettiamo in gioco quando ci mettiamo in gioco è la capacità di inserire qualcosa di imprevisto all’interno di un sistema che costruito per poter continuamente sapere quello che farà e di poter continuare a fare quello che già ha storicamente realizzato. In questo contesto il gioco non disturba, spiazza: se quello che proponiamo ci porta in un mondo parallelo in cui le nostre regole sono messe in discussione cosa accadrà quando torneremo indietro? 

Saper proporre giochi in contesti educativi scolastici, allora, significa attrezzarsi a pensare l’altro al quale noi vorremmo proporre di partecipare al gioco: come coinvolgiamo i bidelli, i colleghi, il Dirigente, il Garante della struttura? E come li portiamo ad accettare la prima universale regola del gioco, che è l’unica non scritta, ma che si applica a tutti i giochi, e cioè che: chi gioca non è mai il ruolo, ma è sempre la persona? Perché il gioco, è collegato profondamente al nostro essere umani, alla nostra essenza e non al nostro essere artefici, alla nostra opera. E quindi fa saltare i ruoli, quelle costruzioni organizzative che continuamente interpretiamo quando siamo dentro la struttura e abbiamo un’etichetta che ci presenta, che ci definisce e spiega. 

Quando giochiamo, ci presentiamo come persone, senza un’etichetta, e siamo tondi, che vuol dire che c’è sempre un dietro, sconosciuto, che una parte di noi rimane sempre in ombra, che il sistema non legge e non inquadra. Quest’ombra risulta minacciosa al sistema, rappresenta la complessità, una molteplicità, una eccedenza di senso, e implica una contraddittorietà, permette una evoluzione del pensiero, una elaborazione, una continua trasformazione dei significati, comportamenti, atteggiamenti rispetto ai quali il sistema entra in allarme, in difesa.

È su questo che va fatto il lavoro con gli adulti, aperto un dialogo con i genitori, che ad esempio vengono rassicurati dai voti, più chiari da leggere e interpretare. Come riusciamo a instaurare un dialogo che rassicuri quei genitori (o i nostri colleghi) che è importante lasciare ad ognuno il tempo per “maturare” rispetto al processo educativo che riguarda il proprio figlio? Come riuscire a spiegare che non è “meglio” saper leggere prima di andare alle elementari perché così c’è un puntello in più verso il successo? Come ragionare sul fatto che “maturare” non ha lo stesso significato per noi e per la pianta; l’essere umano non porta in sé un frutto già previsto e se non lasciamo il tempo di maturare e di esprimersi stiamo probabilmente realizzando il progetto di altri (genitori, insegnanti, pari) piuttosto che l’espressione autonoma del soggetto?

Qui entra in gioco il mito di Procuste, il grande omologatore, il mitico gigante greco che governava un passo di montagna e fermava i viandanti di passaggio per misurarli sul “letto di Procuste” e, se erano troppo lunghi tagliandone un pezzo, e se non lo erano abbastanza allungandoli, li “portava a misura”! È questo il compito che si dà la Scuola? Possiamo dire che la Scuola sia un sistema fatto per costruire bambine e bambini che “stanno al loro posto” nella società, con un processo di omologazione deterministico, è a questo che stiamo partecipando come insegnanti democratici? Oppure la nostra azione vuole contribuire a costruire le condizioni perché ognuno possa svilupparsi per “farsi il proprio posto”? 

E’ a partire da queste domande che stiamo affrontando il tema del “E’ in gioco il potere”, cercando di ragionare su come, da dentro la struttura Scuola, attrezzarsi ad agire per creare spazi che la tengano plastica, flessuosa, ne proteggano la complessità, per far sì che i bambini e gli adolescenti che vi si formano possano formarsi ad essere sé stessi e non a prendere la forma dello stampo. 

Perché questo divenga possibile è necessario riuscire a comunicare e a stare a fianco agli altri insegnanti (e adulti vari) che non si sono attrezzati, perché è possibile che siano adulti che hanno scommesso molto sulla propria faccia, la propria apparenza, e che stiano bene rimanendo protetti dietro al proprio ruolo. 

Come con quei bambini che ti dicono “non posso sedermi sul prato, ho il pantalone nuovo” conoscerete certamente adulti che sanno sempre come appaiono, sanno se gli si scuce il vestito chinandosi o qual è la mossa che mette in risalto i muscoli e si muovono di conseguenza; in certi casi nella scuola, insieme alle tante persone disposte a mettersi in gioco, ci sono persone di questo tipo, che di fronte a una possibile esposizione si chiudono in difesa e fanno un passo indietro, difendendo uno status quo, chiedono a sé e agli altri di rimanere all’interno del proprio ruolo. Ma la storia dell’educazione attiva, nuova, emancipatrice, cooperativa ci chiede di riconoscere al bambino il ruolo di soggetto, ci chiama a rapportarci come esseri umani e a costruire le condizioni per cui ciascuno possa farsi motore del proprio sviluppo e conquistarsi gli strumenti per mettersi al mondo nella propria originalità.

La questione che serve mettere a fuoco è che lavorare con persone che hanno limitazioni a mettersi in gioco spezza il clima educativo. Ci serve allora di concentrare i nostri sforzi su come costruire la possibilità di dialogare tra adulti educatori e non lasciare al bambino il compito di mettere insieme tutti i pezzi delle varie azioni parziali e slegate che ognuno compie verso di esso. 

La questione allora diventa come stare a fianco a degli altri adulti, oltre i colleghi, i genitori, gli attori del territorio, per condividere un senso di comune appartenenza a una condizione educativa che si prenda il compito di lasciare tempo al bambino e di sapergli comunicare la fiducia che saprà far emergere quello che ha dentro di più prezioso. 

È uno sforzo e un interrogativo ulteriore, è certamente un peso in più che ci portiamo sulle spalle, ma penso che lo dobbiamo affrontare.

 

Claudio Tosi Formatore, educatore, artigiano, dal 1967 attivo nei Cemea, Centri per l’esercitazione ai metodi dell’educazione attiva, italiani e internazionali, segretario della Federazione italiana dei Cemea. Lavora presso il CSV Lazio sui temi del servizio civile e del volontariato giovanile