Un altro anno dopo la pandemia, ritorno alla normalità
Un altro anno è terminato ed il ritorno alla normalità, dopo la pandemia, ha lasciato strascichi di disagio, espresso con varie modalità, remissive o violente, per i quali il Ministero ha cercato di intervenire con il progetto di educazione alle relazioni, che non si sa bene ancora quali caratteristiche abbia e quale sia l’apporto di figure esterne alla scuola. Ciò che invece è più chiaro è l’uso del bastone del voto in condotta, che fa media e condiziona il passaggio alla classe successiva ed i crediti per la maturità, e la carota del tutor e dell’orientatore, figure che dovrebbero “accompagnare” lo studente nei momenti più difficili del percorso scolastico.
La didattica a distanza ha lasciato dei vuoti nell’apprendimento, ma una volta fatto ritorno nelle aule tutto sembra voler tornare come prima, anche se sappiamo che occorre una ripartenza diversa, sia per colmare le lacune, ma anche per capitalizzare quel tanto o poco di benefici che il digitale ha portato tra docenti e alunni, senza del quale ci sarebbe stato un vero e proprio blackout.
Le prove INVALSI hanno evidenziato la scarsa competenza degli allievi, soprattutto quelli della scuola secondaria, nelle abilità di base, arrivando a produrre quella che è stata definita “dispersione implicita” e cioè l’incapacità di affrontare i cambiamenti sociali e del mondo del lavoro. Questi dati sono un punto fermo per la qualità del nostro sistema, indipendentemente da come vengono conclusi gli esami, che sempre di più si rivelano passaggi burocratici, inutili anche per il proseguimento del percorso formativo che ogni realtà successiva, universitaria o lavorativa, provvede ad indagare in autonomia.
L’occasione per uscire dalle difficoltà per quanto riguarda il sistema istruzione è quella del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), le cui azioni si sono concentrate perlopiù sul piano delle strutture, consegnando la progettazione agli enti locali che, soprattutto i più piccoli, non dispongono di adeguate risorse tecniche, mentre si sono lasciate un po’ in disparte le ricadute pedagogiche, con soluzioni legate sia ai problemi delle persone, sia sul versante didattico, che ha visto distribuire fondi alle scuole non coinvolte in un’analisi dei bisogni.
I progetti del PNRR sono stati definiti a cavallo di due governi non proprio simili per sensibilità e strategia politica, e solo ora si cerca di mettere in campo quelle “riforme” che la UE aveva richiesto e che certo non possono essere consegnate semplicemente a linee guida, senza sapere effettivamente quale sarà la loro efficacia, anche se resta solo l’impegno di una rendicontazione amministrativa.
Si tratta di interventi di cui si parla da molto tempo, ma che si teme, come in tanti altri casi, una realizzazione a macchia di leopardo senza la possibilità di generalizzazione a tutto il sistema. La riforma dell’orientamento avverrà attraverso il docente orientatore, un pompiere che accorrerà al capezzale delle scelte sbagliate, ma per orientare si deve partire dalla didattica e dal ruolo che devono ricoprire le stesse discipline, che ancora oggi vengono utilizzate per selezionare. Per chi ha difficoltà nell’apprendimento arriva il tutor, una figura più simile allo psicologo, e vedremo come i docenti sapranno interpretarlo.
Il secondo indicatore che emerge dalle prove INVALSI è la distanza nei risultati, ormai permanente, tra nord e sud, a danno di quest’ultimo; il Ministero ha deciso di intervenire con “un’agenda sud”, ma l’unico elemento nuovo è l’aumento dei docenti a sostegno delle competenze di base. Quello che però potrebbe vanificare l’impresa anche qui è la scelta delle scuole in crisi, effettuata dall’alto, dando per scontato l’intervento di recupero messo in atto in maniera più o meno omogenea, senza tenere conto dei contesti nei quali le scuole stesse si muovono e della necessaria autonomia che dovrebbe essere data loro per poter davvero personalizzare i percorsi, che non riguardano solo gli alunni, ma le medesime istituzioni.
Gli spazi offerti alle singole scuole, in termini di organizzazione, calendario, tempi e rapporti con l’esterno sono davvero troppo pochi; da molte parti sono intervenute proposte di aprire i confini scolastici e far entrare organizzazioni del terzo settore, di offrire più tempo scuola anche durante il periodo estivo, molte infatti sono le richieste in tale senso provenienti dalle famiglie, anche per una progressiva assenza di alternative. Troppe vacanze sono prodromi di devianza? Non è detto, ma certo è che per i giovani è comunque più educativo far svolgere attività che richiedono un impegno delle capacità in un apprendimento anche non formale e di creatività, nonché reti di relazioni territoriali che intervengano in modo collaborativo e di volontariato nel sociale.
Forse sarà stata la pandemia a spingere il governo di allora a sostenere iniziative che riportassero i giovani ad uscire di casa e a ritrovarsi nei locali scolastici anche al di fuori dei tempi canonici e in rapporto con altre organizzazioni; oggi sembra che si preferisca ritornare sul lavoro di dirigenti e docenti, anche per risolvere nuove emergenze e sviluppare nuove professionalità.
Il discorso sul personale sarebbe molto lungo, i concorsi ricalcano figure professionali scarsamente innovative, servono di fatto per mettere in ruolo l’enorme quantità di precari, ma sulle carriere non si è intervenuto per paura che riemergesse l’esigenza della valutazione. Il problema delle nomine, che consentirebbe un ormai proverbiale avvio regolare di ogni anno scolastico, necessiterebbe di una maggiore autonomia delle scuole e di accordi a livello regionale, che non si riescono a stipulare, con organici di istituto e chiamate da parte delle scuole stesse: i meccanismi di nomina infatti non tengono conto delle particolarità dei singoli territori. Una maggiore flessibilità nell’esonero dei collaboratori vicari servirà a coprire il nuovo dimensionamento delle autonomie, ma solo per quest’anno.
Un aumento di stipendio ai docenti in corso d’opera sarà possibile se frequenteranno la “formazione incentivata”, ma su questo il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione e i sindacati si sono già espressi negativamente: la formazione in servizio dovrebbe produrre innovazione più che emolumenti, ma il problema che in passato non ha mai avuto soluzione è quello della verifica di tale percorso, che ancora adesso non è chiaro se compete alla singola scuola che promuove formazione mirata ai bisogni locali o ad una Scuola Superiore, voluta dal governo Draghi e non ancora decollata, che comunque fa ritornare un’azione direttiva dell’amministrazione, intesa come prosecuzione della formazione iniziale.
La riforma più interessante è quella dell’istruzione tecnica e professionale, in quanto cerca di mettere ordine nell’intero comparto, applicando la riforma del titolo quinto della Costituzione, ivi compresi i corsi regionali, le attività di alternanza e di apprendistato. Allineare i percorsi statali e regionali, collegarli con l’istruzione tecnica superiore, cercando un’intesa sul piano cultuale e pedagogico e non solamente a livello di domanda e offerta di occupazione, tra formazione generale e professionale, con partenariati aziendali. Questi istituti, soprattutto i tecnici, potrebbero benissimo svolgere il compito di impersonare il made in Italy nelle varie filiere produttive e dei servizi, offrendo agli studenti una maggiore formazione nel campo dell’economia, senza scomodare un nuovo liceo destinato a diventare un ramo secco, in quanto difficilmente contemperabile nella cultura del liceo delle “scienze umane” del quale vorrebbe essere l’alternativa.
I ritmi del cambiamento sono scanditi dal PNRR e dalle varie emergenze, questo denota una notevole frammentazione della visione istituzionale, per come siamo abituati a considerare il quadro riformatore, ma una altrettanta notevole centralizzazione della gestione, che consolida il predominio dell’amministrazione scolastica a scapito di una necessaria autonomia delle scuole e del loro contributo all’innovazione nei territori, in rapporto con gli enti locali e la società civile.
Gian Carlo Sacchi Esperto di politica scolastica. Ha fatto parte del Consiglio di amministrazione dell’INDIRE e ha fatto parte del comitato Scientifico della Regione Emilia Romagna per le esperienze di integrazione tra istruzione e formazione professionale.