Edilizia scolastica: non solo finanziamenti ma opportunità per ripensare la scuola
L’edilizia scolastica è sempre stata oggetto d’interventi che si potrebbero definire discontinui, finanziati con iniziative del governo nazionale ogni tanto, accanto a riforme ordinamentali o a politiche territoriali.
Con la così detta legge Masini del 1996 si è cercato di mettere un po’ d’ordine nel processo di governo del settore definendo, oltre alla riorganizzazione degli immobili a uso scolastico, risorse economiche secondo piani triennali ripartiti a livello regionale con progetti messi in campo dagli Enti Locali. Tali piani sono andati rarefacendosi nel tempo, seguendo un po’ l’andamento economico del Paese, fino a essere sospesi per un bel po’ tanto da suscitare un’indagine parlamentare che arrivò a richiedere di far uscire la materia dal “patto di stabilità”, una restrizione nelle spese degli enti territoriali per effetto delle sgangherate condizioni del bilancio italiano.
Dall’altra parte ci stanno “gli indici di funzionalità urbanistica, edilizia e didattica”, risalenti al 1975, e si può ben immaginare di quale didattica si possa parlare. Dobbiamo arrivare fino al 2013, sotto la spinta delle nuove tecnologie, per sentir dire in un documento del MIUR – rimasto però a livello di linee guida – del “superamento della centralità dell’aula (e) vedere la scuola come uno spazio unico integrato in cui i microambienti finalizzati ad attività diversificate hanno la stessa dignità”.
S’ipotizza un’edilizia scolastica centrata sul “principio di autonomia e mobilità dello studente”. Qui il docente “non ha un posto fisso, si muove tra i tavoli come azione di supporto e di facilitazione all’apprendimento all’interno dei gruppi”. È un bel cambiamento che si vorrebbe veder realizzato in primis nella didattica appunto e poi nell’architettura. Il cuore della scuola del Dewey era la biblioteca: oggi insieme ai libri ci sono i computer, i tablet, le LIM, gli atelier e i laboratori; sembra non vi sia più spazio per il docente che parla dalla cattedra e gli allievi che ascoltano nei banchi, il che però costituisce l’indice principale di funzionalità che ancora caratterizza le nostre scuole.
Con le leggi Bassanini del 1997 l’edilizia divenne sempre di più una materia incardinata nelle competenze dell’istruzione, uscendo dall’ottica dei lavori pubblici, piegandosi verso il decentramento regionale, fino ad arrivare alla legge sul così detto “federalismo fiscale” che inserisce in tale prospettiva l’edilizia scolastica tra le funzioni dei comuni. Un altro dato da segnalare riguarda la manutenzione degli edifici: straordinaria di competenze degli enti locali, mentre per quella ordinaria questi ultimi posso dare fondi alla gestione diretta delle scuole (1997), segno di una visione più autonoma delle stesse.
Come si vede solo di recente questa disciplina può acquisire una visione organica, ma sul piano pratico poco o nulla è stato messo in atto, al punto che i non pochi incidenti occorsi in questi ultimi anni hanno trovato le amministrazioni in notevoli difficoltà. L’approvazione delle norme antisismiche poi hanno messo a rischio di chiusura il servizio scolastico per difetto dei requisiti statici di molti stabili.
Il nuovo governo scende in campo tra gli evviva degli amministratori comunali facendo girare un turbillon di cifre, che sostanzialmente sono già contenute in vari meandri dei bilanci pubblici: non nuovi finanziamenti dunque ma “sblocco” di denari che non si potevano o non si era stati capaci di utilizzare.
Manutenzione, decoro, messa in sicurezza, abbattimento barriere architettoniche, nuove costruzioni a patto che i comuni abbiano già i soldi in cassa pur se soggetti a vincoli di carattere nazionale, o raschiando il barile del MIUR e altre opportunità messe in atto da fondi pubblico-privati . Per interventi più consistenti se i comuni non hanno i soldi bisognerà però aspettare la prossima “finanziaria” . L’utilizzo di fondi europei dovrà come sempre esibire garanzie sull’ordinata tenuta dei conti pubblici.
Guardando le recenti ricerche del CENSIS da fare ce n’è e dall’essere abitata la scuola ad avere tutti i documenti in regola ancora ce ne corre. Data la situazione esistente è apprezzabile lo sforzo di creare una rete tra scuole, Comuni e finanziamenti per poter assumere per il futuro una visione a sistema e affrontare così ciò che oggi sono azioni di miglioramento, che invece debbono rientrare stabilmente nella programmazione territoriale.
Si ha l’impressione che la sensibilità sul tema faccia prevalere i soldi e le gare di appalto, che sia solo un problema edilizio, mentre sembra lontana l’idea di quale scuola si debba progettare o di come si possa trasformare quella che c’è. Sarebbe bello conoscere se dietro al “ripristino funzionale”, una delle categorie contenute nei documenti governativi, ci sono vincoli di legge, per quanto riguarda ad esempio l’antisismica o i risparmi energetici, oppure il concetto di funzionale potrebbe stare anche nelle scelte pedagogico-didattiche e nei processi di partecipazione delle famiglie e delle comunità locali per la costruzione della loro scuola.
Dall’altra parte ancora, tra i progettisti, c’è chi pensa ai campus del nord Europa dove oltre agli elementi di socialità e di appartenenza, dati dalla residenzialità, gli studenti abbiano gli spazi per lo studio e per attività sportive e ricreative.
A che cosa dunque è funzionale il ripristino? Non solo ad ambienti confortevoli, nella speranza, non confermata, che questo produca migliori risultati, ma a come alla comunità, nazionale e locale, interessa che si usino quegli spazi. Per far venire voglia agli studenti di stare a scuola, soprattutto se queste ultime devono esercitare una certa attrazione anche nel tempo libero, non bastano i bei colori alle pareti; se si parla di apprendimenti basati su problemi e progetti e di una valutazione centrata sulle performance, allora occorrono ambienti flessibili, dove la scuola tra l’altro non è l’unico luogo in cui si impara (reti di apprendimento).
Oggi vengono alla ribalta le “flipped classroom”, modelli organizzativi che utilizzano la conoscenza appresa fuori dall’aula, anche con il docente come tutor di un’aula virtuale, che utilizza la scuola per approfondimenti, esercitazioni a piccoli gruppi o individuali con l’aiuto degli insegnanti. Queste modalità “attive” richiedono un’altra gestione degli spazi e degli arredi.
C’è veramente speranza che si facciano nuovi edifici per una nuova scuola?
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Immagine in testata di Missi/Flickr (licenza free to share)
Gian Carlo Sacchi