Per una scuola inclusiva
L’integrazione dei giovani disabili nella scuola di tutti ha conferito al nostro Paese un primato a livello europeo, che ancora oggi è difficile contendere. Una scelta politica e pedagogica ispirata al principio dell’uguaglianza che ha incarnato fino alle estreme conseguenze la finalità di personalizzare gli apprendimenti e di valorizzare le diversità.
Sono bastate poche parole da parte della legge 517/1977 per dare avvio all’impresa; una serie complessa di provvedimenti ci sono voluti per regolamentare questa nuova presenza nelle classi che con il tempo hanno coinvolto tutto il sistema scolastico- formativo. Oltre alle competenze ed alla sensibilità dei docenti, curricolari e di sostegno, tra loro tuttora non ben armonizzate, i rapporti tra mondo della scuola e della sanità non sono idilliaci, soprattutto per l’appropriatezza delle diagnosi e la possibilità di far convivere il supporto all’integrazione e il trattamento terapeutico rispetto alle diverse patologie. La divaricazione tra la visione clinica che tende a specializzare e ad isolare e quella educativa che invece vuole investire nella collaborazione tra pari come metodo per elevare non solo la capacità di socializzazione ma anche migliorare conoscenze e abilità. Le maggiori difficoltà, in un sistema burocratico come il nostro, si sono incontrate nel gestire l’aspetto legale, tra il diritto della persona disabile e la parità di trattamento nei confronti della valutazione, esami, titoli, ecc.
Il percorso storico-evolutivo della normativa inizia con gli interventi educativi e professionalizzanti che la comunità deve garantire agli invalidi civili (L. 118/1971), si passa poi all’assistenza e integrazione sociale delle persone handicappate (L. 104/1992), con una foresta di disposizioni amministrative da applicare ad una realtà geografica ed organizzativa che non brilla certo per efficienza. Nonostante le numerose difficoltà, che si notano anche dalle sentenze di diversi tribunali chiamati in causa, il principio non crolla, anzi vengono maggiormente responsabilizzati gli enti locali (L. 328/2000), fino a riconoscere che sia la scuola non solo ad accogliere, ma ad elaborare una strategia “inclusiva”, nel frattempo sostenuta dall’UE (inclusive education), che deve interessare però tutti gli studenti in difficoltà, oltre ai disabili, i portatori di disturbi specifici di apprendimento (L. 170/2010), fino ai bisogni educativi speciali, area dello svantaggio scolastico (Direttiva BES 2012). Ciascun istituto ogni anno dovrà redigere un piano didattico per l’inclusione che comprenda le diverse forme di difficoltà ed indichi gli interventi previsti, con modalità collaborative nei confronti delle famiglie, delle amministrazioni locali e delle varie realtà del territorio.
Il quadro pedagogico-didattico è dunque abbastanza chiaro, ma difficile almeno per ora è il salto di mentalità che serve per assumere una nuova prospettiva, quella di interessare la scuola nel suo insieme delle problematiche dell’inclusione, mentre resta la convinzione che debba essere delegato il tutto agli insegnanti di sostegno nell’ottica della specializzazione clinica. L’adozione di dispositivi nei diversi percorsi (deficit, DSA,BES) non facilita una sintesi nemmeno per il linguaggio che nelle sue applicazioni amministrative deve essere capace di sostenere non improbabili conflitti giuridici, ma soprattutto dovrebbe entrare con maggiore efficacia nella formazione dei docenti.
C’è bisogno di indicazioni più chiare in sede istituzionale e per questo nelle pieghe della buona scuola fa capolino il D.Leg.vo n 66/2017, che entrerà in vigore con il 1/9/2019; esso ribadisce il concetto dell’inclusione scolastica, ma poi si interessa soltanto delle disabilità certificate. L’obiettivo pedagogico è nel titolo, inclusione, ma lo sviluppo normativo riguarda tanti aspetti di carattere gestionale.
Le innovazioni più rilevanti riguardano innanzitutto la diagnosi di tali soggetti di cui si da incarico all’INPS, dietro richiesta dei genitori e del medico curante, a seguito della quale verrà redatto il “profilo di funzionamento”, sempre ad opera di una commissione specialistica, sulla base dei criteri bio-psico-sociali (ICF), che definisce l’entità delle risorse di sostegno necessarie. Alla redazione di tale profilo collaborano i genitori ed un docente ed è aggiornato obbligatoriamente al passaggio nei vari gradi scolastici. Da qui si partirà per la costruzione del “piano educativo individualizzato” ad opera dei docenti in collaborazione con i genitori e gli operatori dell’ASL. Questo non dovrebbe essere un strumento burocratico ma corrispondere ad un progetto di vita.
La qualità dell’inclusione è parte integrante del processo di valutazione: si veda quanto contenuto nel RAV, ed all’INVAlSI definirne gli indicatori. Nel decreto non si prendono impegni sul fronte del miglioramento, ma si sa che ancora tanto resta da fare circa ad esempio l’eliminazione delle barriere architettoniche e sulla diffusione delle TIC che offrono sempre più soluzioni all’integrazione ed all’apprendimento in situazione di disabilità.
Il nostro decreto, che pur offre una importante regolamentazione per le scuole in ospedale e l’istruzione domiciliare, ha a cuore in particolare gli insegnanti di sostegno, nel tentativo, non del tutto riuscito, di portare chiarezza ad un contenzioso che garantisce i diritti dei soggetti in difficoltà ma fatica a strutturare percorsi che risolvano esigenze molto diversificate per territorio e tipologie di patologie sulle quali intervenire.
Allo Stato di fornire detti insegnanti, facendo anche leva sul così detto organico di potenziamento, ed agli Enti Locali gli assistenti per l’autonomia e la comunicazione personale, per i quali sarà adottato un profilo professionale valido su tutto il territorio nazionale. A carico di questi ultimi vengono confermati tutti gli interventi già in vigore a supporto dell’integrazione. Gli Uffici Scolastici Regionali dovranno quantificare le dotazioni dei docenti di sostegno sulla base di richieste provenienti dai “gruppi territoriali inclusione” costituiti a livello di ambito territoriale. Data l’estrema precarietà di questo organico non è facile assicurare la continuità didattica: sarà possibile, qualora non vi siano altre operazioni di mobilità del personale, stipulare contratti a tempo determinato con gli stessi docenti.
Sono i “gruppi di lavoro per l’inclusione” attivati in ogni scuola o reti di scuole a farsi carico della formazione in servizio del predetto personale, il quale accede ai ruoli dopo aver frequentato 60 crediti universitari e 12 di tirocinio, all’interno della laurea per la scuola primaria ed in appositi percorsi attivati dalle università, autorizzate dal MIUR, per la secondaria.
Resta tuttavia il convincimento che ad un alunno speciale debba corrispondere un intervento speciale condotto da un insegnante speciale: un’applicazione distorta, sostiene Ianes, di un paradigma medico-individuale, che abbinato ad un conservatorismo metodologico tutt’ora presente nella scuola, fa aumentare tra i docenti una posizione separatista, che rischia di farci tornare a forme di ghettizzazione, fuori dalla classe, del disabile. In alcuni Paesi si cerca di spostare il ruolo dell’insegnante di sostegno verso quello di consulente tecnico ai docenti curricolari ed anche da noi ogni tanto, anche per ragioni di spending review, esce la proposta dello psicologo nella scuola al posto di un docente nella classe.
Le famiglie privilegiano l’aspetto individuale e vedono le ore di sostegno come una dotazione per il figlio, la scuola invece deve essere preoccupata di arricchire l’offerta formativa per tutti, in considerazione anche di altri BES e così il progresso delle tecniche didattiche rimane circoscritto al sostegno e non contamina la didattica ordinaria. Ma la società italiana è diventata più inclusiva ? Non si può evitare di pensare alla prospettiva competitiva che si sta diffondendo tra le scuole per fare colpo sull’orientamento e sui sistemi standardizzati di valutazione degli apprendimenti.
Una novità da inserire nel cammino dell’inclusione è costituita dal crescendo degli alunni stranieri disabili, che il decreto tratta in modo indiretto, ma che le scuole si trovano di fronte oltre che con i loro deficit, con il retroterra culturale di provenienza delle loro famiglie. Una concezione diversa della malattia è sufficiente per cadere nell’isolamento. Come poter intrecciare dinamiche familiari e rappresentazioni culturali per poter realizzare un intervento educativo in termini “transculturali”? Una difficoltà pratica è anche quella di disporre di ausili a sostegno delle loro menomazioni, che per i cittadini non comunitari non è facile avere. E torna così la questione della cittadinanza per questi giovani che frequentano le nostre scuole (Jus culturae ?!)
Il decreto di cui parliamo cerca di risolvere gli aspetti giuridici e organizzativi dell’insegnante di sostegno, affida all’università quelli specialistici, ma sul clima che si vive all’interno delle scuole bisogna ancora lavorare molto e lo conferma il desiderio di passare non appena possibile all’insegnamento curricolare. L’integrazione sarà buona se cambia il modo di far scuola di tutti nella prospettiva di una maggiore equità. Occorre rafforzare il ruolo di mediatore sociale degli insegnanti oltre a quello di facilitatori dell’apprendimento, per incrementare l’accettazione delle diversità. E’ su questa base che ritorna il concetto di inclusione al quale dice di riferirsi la legge 107 con il suo decreto applicativo, ed anche se la regolamentazione in particolare è indirizzata alla disabilità, nella complessa modalità della sua trattazione nella scuola, ormai il quadro normativo è completo per affrontare una pluralità di disagi che non toccano più soltanto gli alunni, ma anche i docenti, spesso poco condivisi dai colleghi, che vanno così ad aumentare il bournaud professionale, e le famiglie, che li affrontano con paura ed ansia; il che sfocia in aggressività reciproca anziché in collaborazione. Come sembra lontana la prima esperienza degli organi collegiali e la loro strategia di mediazione educativa.
Il decreto 66 ha bisogno di un certo numero di provvedimenti applicativi perché sia portato a compimento entro una data, quella dell’entrata in vigore, che ormai non può più essere rispettata. L’ultimo governo ha invece voluto apportare modifiche che sono state sepolte dalla crisi. L’intenzione era quella di diminuire l’aspetto clinico offrendo più spazio alle componenti educative e scolastiche e nello stesso tempo semplificare un’organizzazione burocratica giudicata troppo complessa. Ma nulla è cambiato sul piano diagnostico; due documenti, uno clinico, il “profilo di funzionamento” e uno didattico il “piano educativo individualizzato”. Il primo redatto da un’unità multidisciplinare del servizio sanitario nazionale, l’altro dai docenti con la collaborazione dei genitori. Per ciascun ambito provinciale è costituito un gruppo per l’inclusione che esamina le richieste dei dirigenti scolastici circa l’ammontare delle ore di sostegno. Di questo gruppo oltre alle AUSL, fanno parte le associazioni degli utenti disabili rappresentanti degli enti locali che dovranno poi provvedere agli interventi di assistenza e di base. Presso ogni istituto sarà costituito un gruppo di lavoro che supporta il collegio dei docenti nella redazione del “piano per l’inclusione” e reti di scuole potranno dare vita a centri territoriali per sostenere la formazione di docenti, la ricerca, l’inserimento delle tecnologie, ecc.
Nuove denominazioni e vecchie procedure, ma la vera emergenza sono i docenti di sostegno: non si trovano, non sono specializzati; i percorsi formativi sono lunghi e frammentati e non riescono ad assicurare quella continuità didattica che per questi soggetti è ancora più necessaria durante tutto il percorso scolastico.
Gian Carlo Sacchi