Le nuove “Indicazioni” per il primo ciclo
In vista dell’applicazione del quadro ordinamentale indicato dalla riforma costituzionale del 2001 è da registrare con soddisfazione che le nuove indicazioni nazionali per il primo ciclo si aprono a un diverso rapporto tra gli obiettivi e i risultati e l’autonomia professionale e didattica dei docenti e delle scuole. Sembra questo, del repertorio dei recenti pronunciamenti ministeriali, il più deciso a uscire dalla logica della prescrittività delle cose da fare per cogliere il senso del sistema nazionale nei risultati da conseguire. Ed è importante che sia lo Stato a sostenere esplicitamente che “il sistema scolastico è fondato sulla libertà di insegnamento e sull’autonomia funzionale di ogni istituzione scolastica”. Che sia lo Stato stesso a stabilire le “norme generali”, come indicato dal nuovo titolo quinto della Costituzione, a fissare gli obiettivi di apprendimento relativi alle competenze degli studenti, sulla base dei quali si potrà impostare anche il controllo degli standard di qualità. Ciò che conta e che ha accompagnato anche tutta la polemica sulle prove INVALSI è sapere con chiarezza, e finalmente incominciamo a saperlo, dove si deve andare, lasciando libero il percorso.
Non è che tutto sia risolto per arrivare davvero a una consapevolezza delle scuole e una loro responsabilità in tal senso; ancora infatti gli strumenti di governo del sistema sono costruiti in maniera centralistica. Non sappiamo se quanto viene detto circa la obbligatorietà delle discipline e degli orari si riferisca a una sorta di core-curriculum, con spazi di integrazione dell’offerta formativa e di scelta da parte di alunni e famiglie, oppure non prevalga ancora il curricolo totalizzante. La differenza la fa la dotazione di personale e la sua reperibilità: sul modello solo nazionale, oppure con margini di manovra da parte delle scuole o loro reti; se le professionalità sono solo quelle codificate dalla legge o ci sono spazi per altri interventi richiesti e/o forniti dal territorio.
Il riferimento all’organico di istituto infatti ha una doppia valenza: una riguarda la flessibilità gestionale, che una sentenza della Corte Costituzionale avrebbe già condotto a livello regionale, ma l’altra torna a identificare quali professionalità ne debbano fare parte e chi le recluta.
Si sa che su questo tema c’è aspra polemica in linea di principio, anche se poi, soprattutto in un periodo di crisi che ci ha abituati a tagli di personale, di fatto molte e diverse soluzioni sono state adottate nelle realtà locali, sia per raccordare per esempio i diversi servizi per l’infanzia, i diversi tempi scuola, che oggi, come si sa, non sono più coincidenti con il tempo pieno/orario della fabbrica.
Insomma se si vuole veramente andare nella direzione indicata lo strumento istituzionalmente debole delle indicazioni può diventare l’elemento decisivo se è quello che Guasti chiamava il “sistema pedagogico” ad essere in primo piano: valorizzare le professionalità, ma anche evidenziare le responsabilità.
Siamo sicuri che i docenti e le scuole abbiamo questo gran desiderio? Dai dati del monitoraggio emerge infatti un sistema piuttosto ingessato, meno motivato che in passato e pronto a prendersi spazi e a costruire progetti, ma dall’autonomia non si può arretrare: il centralismo ha mostrato come dalla massima omogeneità si potessero ricavare risultati così eterogenei da mettere in discussione l’equità dell’intero sistema.
Circa la flessibilità dell’organizzazione del team docente, a partire da un’autoregolamentazione della scuola e del funzionamento dei suoi gruppi interni (vedi la proposta di legge sull’autogoverno delle scuole), va affrontato il tema: unitarietà della funzione docente e specificità disciplinari, che nella scuola dell’infanzia e primaria fanno riferimento a un’unica formazione di base, mentre per la secondaria di primo grado occorre riprendere il discorso sulle “aree disciplinari”, per rendere il team stesso più coeso e la comunicazione didattica più efficace.
Ma torniamo alle indicazioni, collocate appunto tra le norme generali, a partire da un profilo dello studente ai diversi gradi di uscita, corredato di traguardi, sulla base dei quali ogni scuola elaborerà il proprio curricolo. Si parte dal quadro delle competenze europee che per essere vicine a noi con il loro: imparare ad imparare, competenze base di scienza e tecnologia, che non sia soltanto quest’ultima utilizzo bieco del TIC, spirito di iniziativa e imprenditorialità, sapendo come la nostra concezione trasmissiva tende a rendere passivi gli alunni e a demotivarli ecc., hanno bisogno di un consistente rinnovamento didattico, che ponga, come ci dice il documento, “l’accento sugli aspetti del processo e dell’attività oltre che su quelli della conoscenza”.
L’importanza attribuita alle competenze chiave europee ha anche un valore nel nuovo impianto istituzionale: esse infatti sono un riferimento unitario, ma ogni sistema nazionale, e, si potrebbe dire, ogni scuola autonoma, le possono perseguire attraverso modelli diversi.
Le indicazioni sono tagliate sul modello degli istituti comprensivi, con un profilo in uscita al termine dell’intero primo ciclo. Non si tratta tanto di un obbligo di legge, proveniente dalla politica dei risparmi, quanto di una riflessione pedagogica volta a tenere insieme il decondizionamento socio-culturale, che è tornato di primaria necessità, modalità più distese di apprendimento che consentono una maggiore articolazione della proposta didattica, più facili modalità di recupero, soprattutto per gli alunni stranieri, più efficaci collaborazioni tra le professionalità dei diversi gradi scolastici, l’orientamento che promuova competenze e consapevolezza cercando di arginare la dispersione evitando ogni funzionale precocismo.
Continuità educativa dai 3 ai 14 anni, curricoli verticali: nella pratica didattica i docenti dovranno dunque tendere al superamento dei confini disciplinari e avere come riferimento ultimo la promozione di competenze che necessitano dell’apporto simultaneo di diversi saperi.
Autonomia e costruzione del curricolo sono gli aspetti che più devono fare leva sulla ricerca e l’innovazione educativa. Più c’è autonomia e più la promozione della qualità diventa il valore aggiunto per il conseguimento dei risultati programmati. Le scuole non saranno dunque soltanto un “punto di erogazione del servizio”, ma luoghi di “ricerca, sperimentazione e sviluppo”. Reti di scuole, dice il DPR 275/1999, potranno dare origine a “laboratori territoriali” a sostegno di questa nuova esigenza, per migliorare sia la capacità di interpretare la realtà in cui operano, sia le prestazioni, che potranno anche essere valutate.
Tutto questo poggia sulle esperienze didattiche e professionali, utili sia alla costruzione della comunità di pratiche, sia alla capacità dei docenti stessi di riflettere sulla propria attività con l’ausilio di una efficace azione di documentazione e di collegamento tra le banche dati della didattica ormai disponibili on line dal locale al globale.
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Rimane opportunamente l’organizzazione per “campi di esperienza” nella scuola dell’infanzia, dove i bambini osservando il proprio movimento e quello degli oggetti, imparano a organizzarli nello spazio e nel tempo.
Tali abilità vengono ricercate all’interno del mondo artificiale, di cui gli stessi fanno sempre più intensa esperienza, alla ricerca delle proprietà dei materiali e dei criteri di assemblaggio in diverse costruzioni. Cercano di capire come sono fatti macchine e meccanismi, si accorgono delle loro eventuali trasformazioni “in base ad elementari modelli di strutture”.
Si inizia così a diventare automi? Certo è che il peso dato al naturale rispetto a precedenti documenti ministeriali di questo genere se non è diminuito è comunque posto in forte relazione con quanto è costruito dall’uomo, il che richiede il potenziamento di un vero e proprio “asse culturale” di tipo tecnologico posto al servizio non solo dei sistemi di comunicazione, ma della comprensione di ciò che circonda la nostra vita quotidiana e sulla quale fin da bambini dobbiamo imparare a intervenire. Nei traguardi di sviluppo il bambino della scuola dell’infanzia “si interessa a macchine e a strumenti tecnologici, per scoprirne le funzioni e i possibili usi”.
Nella scuola del primo ciclo (5+3) viene affrontato il ruolo delle discipline. La loro affermazione nella scuola primaria con la riforma del 1985, con tanto di programmi e orari, sebbene all’interno di figure docenti unitarie, avevano fatto pensare a una precoce secondarizzazione; la situazione che oggi viene evidenziata nella scuola secondaria di primo grado è quella di notevoli difficoltà di apprendimento e ciò richiama l’attenuazione su un curricolo fortemente frammentato, con una eccessiva presenza di insegnanti specializzati. Ora tocca al comprensivo una nuova sintesi in cui “le discipline non vanno presentate come territori da proteggere entro confini rigidi, ma come chiavi interpretative disponibili per ogni possibile utilizzazione”. In una realtà complessa occorre che le diverse discipline dialoghino e che si “presti attenzione alle zone di confine e di cerniera fra discipline”. È quest’ultima indicazione che ci consentirà un passo avanti tra un disciplinarismo spinto che oggi sembra irraggiungibile e il mantenimento di approcci tradizionali agli elementari strumenti di conoscenza.
Anche questo documento propaganda a piene mani la cultura laboratoriale, come strumento efficace per “favorire l’operatività e nello stesso tempo il dialogo e la riflessione su quello che si fa”. È arcinoto che il laboratorio sia una modalità di lavoro che incoraggi la ricerca e la progettualità, coinvolga gli alunni nel pensare-realizzare-valutare, attività vissute e partecipate con altri e, novità (?), possa essere attivato sia all’interno che all’esterno della scuola, valorizzando il territorio come risorsa per l’apprendimento. Pur sottoscrivendo tutte queste indicazioni non si può non sottolineare una certa ipocrisia sulla questione dei laboratori, di cui si è fatta ampia professione un po’ in tutte le recenti riforme. Sappiamo bene, ma ci fermiamo lì, che senza una radicale modifica dell’organizzazione non si può far avanzare la suddetta modalità didattica, né dentro, ne fuori dalla scuola: quello che accade con gli stage nelle superiori ci dovrebbe essere di ammonimento. Le risorse per le attrezzature non vengono da tempo erogate (non si vive di sole LIM) e quindi c’è anche l’obsolescenza che ci attanaglia. Lo stesso sistema valutativo andrebbe rivisto. E poi se guardiamo i dati del monitoraggio oltre il 70% dei docenti di elementari e medie praticano la lezione frontale. Cosa significa ? Che con un insegnante unico e una classe di 29 alunni è difficile andare oltre lo stazionare nei banchi o che la stessa formazione dei docenti è ancora ferma alla trasmissione orale (pur via internet) della conoscenza.
Oltre al superamento dell’autoreferenzialità delle discipline è interessante notare come questo documento poggi sulla continuità. Verticale nel senso dell’età evolutiva ma anche del “percorso cronologico unico” di storia, ed orizzontale, sull’uso del territorio, non solo per quello che Frabboni chiamerebbe “alfabetiere culturale”, nelle diverse epoche storiche, realtà naturali, antropologiche, economiche ecc.; oggi sul territorio bisogna imparare a stare in termini di “sostenibilità”, sapersi orientare non è soltanto un’esercitazione psico-motoria, ma un’educazione alla cittadinanza attiva, acquisire consapevolezza in quanto giovani e nel rapporto tra le generazioni della responsabilità che si porta nei confronti dell’ambiente, tra tutela e sviluppo.
E qui il cerchio si chiude un po’ come si era aperto, con l’importanza attribuita al mondo dell’artificiale attraverso la disciplina Tecnologia, con tutte le sue implicazioni non solo interdisciplinari ma legate “all’uso consapevole e intelligente delle risorse”. È il “favorire nei ragazzi un atteggiamento responsabile verso ogni azione trasformativa dell’ambiente e una sensibilità al rapporto , spesso conflittuale, tra interesse individuale e bene collettivo” che si forma il senso civico.
Così la tecnologia non sarà solo multimedialità, componente didattica di tutte le discipline; si tratta di un “dominio culturale” dove i ragazzi “imparano a trasferire le conoscenze astratte, caratteristiche dei mondi simulati al computer e della realtà virtuale, con quelle pratiche legate a problemi e situazioni concrete, mutuate dalla vita reale”.
Gian Carlo Sacchi