Lo strabismo valutativo
Il tema della valutazione scolastica non è sempre stato coerente con gli obiettivi formativi che venivano indicati per l’azione didattica, ma in questo periodo assistiamo ad indicazioni politiche che esprimono contraddittorietà ed aggravano il lavoro delle scuole senza offrire un sicuro riferimento all’utenza, sia per ciò che riguarda i processi di maturazione delle personalità giovanili, sia per le performance che si devono presentare al mondo del lavoro.
Recentemente è stato emanato il decreto ministeriale relativo alla certificazione delle competenze ed in Parlamento si è approvata una legge che attribuisce voti numerici ai comportamenti degli studenti e giudizi sintetici nella scuola primaria.
Com’è noto il dibattito sul prevalere dell’una o dell’altra metodologia valutativa viene da lontano ed ha cambiato di frequente sia la constatazione dei risultati raggiunti, sia la loro comunicazione all’esterno, a partire dalle famiglie.
Un insegnamento che poneva al centro i contenuti ed che era basato sul possesso di conoscenze poteva avere un riscontro quantitativo, “sommativo”, che esauriva il percorso di studio e veniva utilizzato come strumento di comparazione tra gli allievi della classe. Una didattica che si fondava sulla diversità della persona che apprende e sull’individualizzazione del processo di apprendimento, aveva bisogno di una valutazione più “formativa”, che doveva segnare il traguardo, ma nello stesso tempo fornire crediti per successivi momenti di formazione.
La ricerca scientifica nel settore fu unanime nell’accreditare una scuola personalista e quindi una valutazione che non poteva fare astrazione dalla qualità della persona e dell’apprendimento stesso. Si giunse così ai giudizi analitici, almeno per il primo ciclo, anche se ben presto una didattica attiva, che coinvolgesse i giovani nella propria esperienza formativa e li ponesse di fronte a compiti di realtà, richiedeva anche per la scuola superiore una valutazione aperta e proiettata verso la formazione continua, richiesta dal mondo del lavoro e dal confronto internazionale tra i sistemi formativi, che portò all’introduzione delle “competenze”.
Si era constatato che la didattica per competenze poteva raggiungere la finalità della personalizzazione e della partecipazione degli allievi al proprio percorso formativo, al raggiungimento non solo di obiettivi conoscitivi, ma anche operativi, all’interno dei contenuti scolastici, ma anche sociali e professionali; la valutazione descrittiva però veniva tacciata di scarsa comprensibilità soprattutto da parte delle famiglie, abituate a soggiacere ai numeri, quando non anche eccessivamente onerosa la compilazione delle schede da parte degli insegnanti.
Mentre la scienza psicologica e pedagogica non hanno mai messo in discussione la bontà dei giudizi descrittivi, semmai si poteva rendere meno burocratiche le schede di valutazione, la politica ha fatto numerose invasioni di campo, argomentando il ritorno ai voti con la maggiore facilità di comprensione del numero rispetto alla descrizione. Sembra però che una tale contestazione, accompagnata alla retorica del sacrificio per conquistare la promozione, cioè la media del sei, fosse più riferita a un’idea selettiva di scuola, che i voti potevano facilitare, rispetto ad una più orientativa condotta da un’analisi accurata della qualità dell’apprendimento.
Parallelamente però le ricadute dalla legge 107/2015, che non ebbe il coraggio di abolire il decreto Gelmini, che ripristinava i voti per tutti i gradi di scuola, finirono per imporre anche la certificazione delle competenze, senza che queste avessero efficacia sui voti, ma semplicemente pensate per i passaggi tra i sistemi formativi o un eventuale abbandono della scuola, per cui alla fine, soprattutto per il primo ciclo, sono da considerarsi una sovrapposizione, mentre anche il recente decreto potrebbe essere utilizzato per tutta la valutazione. Esso infatti tra i misuratori prevede passaggi che sono nell’ottica del miglioramento (iniziale, base, intermedio, avanzato), mentre i giudizi sintetici di cui si parla nell’attuale elaborazione parlamentare, sono tranchant: c’era chi pensava di porre il “gravemente insufficiente” nella scuola primaria.
Non solo, ma si tornerà ad una valutazione numerica, con relative sanzioni, per il comportamento, mentre nella dimensione attivistica della didattica per competenze si poteva ritenere già compreso l’aspetto comportamentale, finalizzato all’ottenimento della prestazione, forse maggiormente responsabilizzante che non la punizione individuale.
Nel secondo ciclo la valutazione delle competenze consente un confronto europeo per quanto riguarda la circolazione delle qualifiche professionali, meglio precisata con il curricolo dello studente, a latere dell’esame finale, che potrebbe anche sostituirlo, o del e-portfolio che anzichè ridursi ad uno strumento burocratico potrebbe svolgere la funzione di autovalutazione. Tutto questo se si tiene conto che al termine della scuola superiore serve una formazione autonoma e responsabile anziché un accertamento disciplinare già disponibile nelle prove durante gli anni, eventualmente con crediti da spendere in eventuali successivi percorsi, in quanto le università provvedono da sole a selezionare i loro studenti ed al mondo del lavoro non interessa un groviglio di numeri, salvo che poi sottintendano una reale preparazione, ma una chiara formulazione di competenze atte ad entrare nel contesto aziendale.
L’unica modalità coerente tra progettazione e valutazione per competenze è quella legata ai CPIA, nei quali la certificazione è la messa in valore delle competenze acquisite dagli adulti.
Cercando di sintetizzare tutto il materiale in circolazione in termini di valutazione si evidenzia come certe modalità vanno ad intaccare le finalità stesse del sistema scolastico, alle quali si può aggiungere anche il ruolo dell’INVALSI. Non è solo un problema di comunicazione e per quanto lo sia forse sarebbe meglio formare i genitori ad un linguaggio più obiettivo rispetto ai risultati realmente raggiunti, che lasciare impregiudicata la decodifica di un voto numerico attribuito dalla più totale soggettività degli insegnanti.
L’ultima legge sembra più in linea con il regolamento del 1925 che faceva riferimento alle sanzioni disciplinari in un’ottica punitiva, che con lo statuto degli studenti e delle studentesse, che mette al centro gli studenti e la loro crescita in una scuola democratica, che attribuisce loro diritti senza venir meno ai doveri, e ponendo le sanzioni all’interno di uno sviluppo complessivo della comunità scolastica. Era il regolamento di istituto infatti a prevedere le sanzioni disciplinari, mentre adesso tornano le norme ministeriali.
L’unica cosa che accomuna le due ultime normative è il tentativo di recupero dell’infrazione con attività di carattere sociale, che portino lo studente a riflettere sul comportamento per rientrare nel rispetto delle persone e delle regole, e che queste attività possano continuare anche dopo il momento della sanzione, in modo che oltre al ravvedimento ci sia anche l’apprendimento.
A questo punto si registra un altro ritorno al passato: la ricaduta del voto di condotta sul profitto, che può compromettere il risultato finale. Il superamento del rapporto di causalità tra i due elementi era avvenuto da un lato per un motivo di trasparenza rispetto all’effettivo apprendimento raggiunto ed al suo valore nei confronti del mondo esterno, e, dall’altro, per impegnare la comunità scolastica nella cura dei rapporti interni all’istituto tra le diverse componenti.
Che poi sia la punizione a ridare autorevolezza al docente, è una debole forma di captatio da parte della politica che gli insegnanti più motivati non accetteranno. Per ridare considerazione sociale si deve operare sul loro status giuridico ed economico e sulla loro autonomia culturale e didattica, mentre l’azione di ministri e funzionari è sempre più stringente e soffocante anche negli indirizzi normativi per la loro attività, a cominciare dalla valutazione.
Gian Carlo Sacchi Esperto di politica scolastica. Ha fatto parte del Consiglio di amministrazione dell’INDIRE e ha fatto parte del comitato Scientifico della Regione Emilia Romagna per le esperienze di integrazione tra istruzione e formazione professionale.