Lanci di cestini e tirate d’orecchio: l’emergenza educativa nella prospettiva dell’educabilità – di Claudia Sabatano
La scuola e l'educazione.
Emergenza educativa: sì, ma quale?
Tra “lanci di cestini” (dell’alunno al professore) e “tirate d’orecchio” (della maestra al bambino), si compie metaforicamente la parabola discendente della scuola, che sembra dare la generale sensazione del fondo ormai toccato. E da lì, come da triste storia mediatica, tutti, ma proprio tutti, intervengono a dire la loro, a dire qual è il problema (“la scuola non fa più il suo mestiere”) e quale non è (“la famiglia ha sì un ruolo nell’educazione, ma diverso…”), salvo poi, poco dopo, sentir dire l’esatto opposto, che la scuola non può far di più se la famiglia non la sostiene e la riconosce…
In questa torre di Babele verrebbe da tacere, da pensare che la cosa più giusta sia mettersi a testa bassa a lavorare, perché di parole c’è chi ne dice tante e troppe, ma senza che questo porti a fare neanche un minimo passo avanti per fronteggiare le sostanziali criticità in atto.
Può bastare il senso comune – la parola del cittadino, del genitore o la riflessione mediatica – a dare una risposta a questa emergenza educativa? No. Non può bastare. È necessario, invece, un approccio pedagogicamente ancorato e metodologicamente orientato, che provi a uscire dal terreno delle teorie ingenue e di senso comune (alle quali pure tanto deve la pedagogia scientifica) per addentrarsi nelle scienze dell’educazione, che appunto, non hanno statuto generalista, ma costituiscono una epistemologia scientifica alla quale va affidato il piano delle soluzioni ai problemi della scuola.
Partiamo dal concetto di emergenza. L’emergenza pedagogica di cui oggi si parla va considerata non sul versante allarmistico e qualunquistico di uno stato generalizzato di allerta in cui tutti si preoccupano e nessuno si occupa. L’emergenza educativa è, piuttosto, per il pensiero pedagogico, la difficoltà che emerge nello scenario attuale della prassi educativa e che richiede l’intervento e l’azione dell’educatore professionista (Cambi, 2001). Privata dell’enfasi da rotocalco con la quale viene presentata, vista con l’occhio disincantato di chi lavora sulla relazione formativa, l’emergenza educativa attuale potrebbe anche apparire come il contesto naturale e costante in cui si compie la dinamica di insegnamento-apprendimento: l’educazione è sempre un processo complesso ed il contesto educativo è sempre un contesto critico.
Questo è dunque davvero un problema di oggi?
Nuove emergenze o problemi che riemergono?
Da una conferenza di Franco Nembrini: “la nostra gioventù è maleducata e si burla dell’autorità…i bambini di oggi sono dei tiranni” (Socrate, 470 a.C.); “non c’è più alcuna speranza per l’avvenire del nostro Paese…poiché questa gioventù è insopportabile, senza ritegno, terribile…” (Esiodo, 720 a.C.!); “i ragazzi non ascoltano più i loro genitori…” (Sacerdote dell’antico Egitto, 2000 a.C.!!); “i giovani sono maligni e pigri, non saranno mai come la gioventù di una volta” (incisione su vaso d’argilla nell’antica Babilonia, 3000 a.C.!!!).
Problema di oggi? Parrebbe proprio di no…è più vero che la materia di chi lavora sulla formazione e sull’apprendimento è materia complessa, per sua intrinseca natura soggetta a fasi critiche, a cortocircuiti, se non anche a collassi. Non ci sono soluzioni facili ai problemi difficili che nascono nell’insegnamento e quasi mai le soluzioni ai problemi – che pure si possono trovare – sono definitive e risolutive. Questa è la condizione in cui si insegna, non certo l’emergenza.
La scuola vive, forse potremmo dire da sempre, alcuni problemi emergenti, che osservati più da vicino, appaiono in realtà questioni che ciclicamente e storicamente ri-emergono: non saper gestire alunni sempre più insolenti e demotivati; non vedere riconosciuto il proprio ruolo dalle famiglie e spesso dall’intero contenitore sociale; poggiare su una classe docente sempre sotto pressione e a rischio burn-out.
Educazione vs educabilità
Proviamo a partire dal condividere un presupposto di fondo. Come il medico serve di più al malato grave che a quello con l’influenza, così la scuola è sì un luogo per tutti, ma, soprattutto, è il posto per chi ha più difficoltà, nel senso omnicomprensivo del termine, dalle difficoltà di apprendimento a quelle familiari, dal disagio evolutivo a quello di situazione. È quindi sorprendente che chi fa l’educatore di professione si possa sentire inadatto a gestire quelli che Piero Bertolini chiamava “ragazzi difficili”, quando la spendibilità del profilo professionale degli insegnanti è certamente meglio espressa e valorizzata con chi è svantaggiato o disagiato nel percorso di sviluppo e di apprendimento. Questa, che potrebbe sembrare una premessa scontata, è invece una idea di principio che va saldamente ancorata nella professionalità docente al fine di non trovarsi nel rischioso equivoco di pensare – di fronte ad uno studente oppositivo, aggressivo, reattivo, apatico – “ma io cosa ci posso fare? mica me ne posso occupare io? perché poi devo farlo solo io? è la famiglia che doveva educarlo…ha bisogno di uno psicologo non di un insegnante”.
Fatta la premessa, è possibile tentare – in questa sede necessariamente in modo sintetico e senza alcuna pretesa di esaustività – di mettere a fuoco un elemento cardine della relazione di insegnamento-apprendimento.
Il principio potrebbe essere detto così: l’insegnante non si occupa di educazione ma di “educabilità” (Santoianni, 2006). L’educazione indica, infatti, il processo compiuto, il percorso visto a valle dell’intervento formativo, l’atto aristotelico, non certo la potenza. A colui che educa interessa, invece, l’educabilità del discente, ossia i margini, gli spazi entro i quali realizzare l’azione educativa.
Tali spazi hanno delle precise caratteristiche.
Innanzi tutto variano da soggetto a soggetto (ossia da alunno ad alunno) in relazione a una serie di elementi interagenti: il contesto sociale e familiare, il percorso già svolto fino a quel momento, la storia personale e degli apprendimenti, la strutturazione cognitiva ed emotiva, le conoscenze implicite (ossia non formali), la capacità di attivare strategie per apprendere (meta riflessione)…
In secondo luogo, variano nel soggetto che apprende: uno studente che ha dimostrato una grande capacità di apprendimento e di relazione può – per il tangere di nuovi vettori perturbanti (la separazione dei genitori, un cambio scuola non voluto, una delusione personale, una malattia, un cattivo intervento da parte di un insegnante) – ridurre il proprio spazio di educabilità o anche, aumentarlo, se queste variabili si risolvono in tutto o in parte. L’insegnante che non segua l’andamento variabile dell’educabilità, rintracciandone periodicamente i margini, tende a creare processi di etichettamento che solo in prima battuta sono più comodi e rassicuranti “X è attento e rispettoso, Y è svogliato e maleducato, Z è portato per la matematica…”. Nel tempo, queste gabbie concettuali e pregiudiziali condizionano, o addirittura impediscono, il cambiamento, che genera quell’apprendimento trasformativo capace di condurre all’emancipazione e all’autonomia, finalità essenziali della formazione.
La dimensione sempre variabile dello spazio educativo
Lo sguardo di Medusa, che pietrifica lo studente nell’immagine granitica che gli insegnanti hanno di lui, positiva o negativa che sia, è quindi uno degli ostacoli maggiori al lavoro sull’educabilità. Lo spazio educativo è e deve rimanere “tentennante”, come dice Maria Grazia Contini, perché incerto è il cammino di chi impara e incerto (ossia critico, ermeneutico, dialettico e problematico) deve essere lo sguardo di chi insegna.
Lo sguardo del docente che coglie il cambiamento, nel prevederlo, lo rende possibile: ogni giorno entro in classe pensando che ho di fronte non sempre gli stessi alunni, quelli di cui già ho conoscenza, ma ci vado per creare spazi di esistenza e di espressione nei quali ogni studente sia messo nella condizione di scegliere di essere e di fare cose diverse, originali, nuove rispetto a quelle già fatte. Scriveva Danilo Dolci: “ciascuno cresce solo se sognato…”; ciò vuol dire che i miei alunni avranno tante possibilità di esprimersi quante sono quelle che io immagino per loro, quelle che io come docente – nella giusta e convinta asimmetria del mio ruolo – so pre-vedere e disegnare per e con loro.
In ultimo, l’educabilità, intesa come capacità di registrare via via la disponibilità ad apprendere dell’alunno, è un principio essenziale per ridurre la frustrazione dei docenti di fronte ai fallimenti dell’insegnamento. Il principio dell’educabilità ci ricorda, infatti, che ciascun soggetto in formazione non è educabile al 100% ma è educabile in una misura variabile e mai completa. Ciò significa che se il 100% è la totalità del mio studente, devo partire dall’idea che di lui potrò educare una parte, che sia un 70% oppure un 30, un 20, se non anche un 5%.
Il lavoro del docente, una volta individuati gli spazi di educabilità dello studente, corrisponde ad ottenere che il proprio intervento educativo e didattico interessi il cento per cento non dell’intero soggetto, ma solo di quella percentuale in cui è educabile. Se è educabile al 70% dovrò ottenere il 100% di quel 70, ma non dell’intero alunno, poiché, se ad esempio si tratta di un ragazzo in difficoltà (in emergenza abitativa, con una seria deprivazione socioculturale, con un grave disagio familiare) sarà magari educabile al 5%. Ebbene, io, come suo insegnante, sono chiamato a lavorare per ottenere il cento per cento del suo 5% di educabilità, ottenuto il quale, forse, avrò allargato i margini al 10%.
L’educabilità è relativa al contesto
Il lavoro docente, quindi, non sempre avrà come traguardo il “successo scolastico e formativo” – che tra l’altro è termine molto poco riferibile a soggetti in via di sviluppo per i quali l’idea di “successo” difficilmente, e anche nei casi più felici, risulta applicabile. Se lavoro con uno studente che ha un margine molto limitato di educabilità, con una tendenziale indisponibilità al cambiamento e una bassa modificabilità cognitiva, la finalità dell’intervento non sarà certo il “successo”, ma, più correttamente la riduzione del danno evolutivo, cognitivo, relazionale e affettivo; il che assume ugualmente il valore di un successo, calibrato criticamente all’interno di una dimensione relativa e contestuale. Ad esempio, facendo riferimento ad un caso particolarmente estremo, posso ottenere dall’azione educativa che un alunno deviante di scuola media, inserito in un contesto di assoluta marginalità e deprivazione, non diventi un criminale ma magari un venditore ambulante. Questa riduzione del danno individuale costituisce, letta in riferimento al proprio range di educabilità, una forma di successo, ossia di crescita individuale e di emancipazione sociale per il soggetto, che la raggiunge in forma guidata, all’interno della relazione di insegnamento-apprendimento.
Tra i pochi assi su cui va a incardinarsi l’azione educativa e didattica, pertanto, quello dell’educabilità appare più che mai orientativo e fondante. Aiuta l’insegnante a sentirsi meno pressato e frustrato e lo studente a sentirsi pienamente riconosciuto, non solo per ciò che è, ma molto di più per gli spazi di crescita che la scuola saprà disegnare per lui.
Claudia Sabatano