Dalla scuola all’università, quale orientamento?
Lo scorso agosto, con decreto del ministro dell’università, sono stati ripartiti i 250 milioni di Euro destinati dal PNRR-Missione 4 all’”orientamento attivo nella transizione scuola-università”. Università e istituzioni ANFAM promuoveranno nel 2022-2026, per un milione di studenti del triennio di secondaria di II grado, corsi orientativi curricolari o extracurricolari di 15 ore, per almeno 2/3 “in presenza”, tenuti da professori universitari, ricercatori, esperti. La frequenza del 70% del corso assicura un attestato finale, uno solo, si precisa, anche se nel triennio gli studenti ne frequentassero più di uno. A non essere precisato – forse un credito da far valere alla maturità – è l’utilità dell’attestato. Resta nel vago anche il contenuto dei necessari accordi preliminari con le scuole, non si capisce per esempio se il possibile coinvolgimento degli insegnanti “ in modo che successivamente l’orientamento possa continuare ad essere impartito da personale interno”, implichi o meno un ruolo attivo di coprogettazione degli istituti. Chiarissima invece l’indicazione di non replicare i cosiddetti open day – “ tali corsi non possono avere finalità auto promozionali “ – ovvero il modello futile e inappropriato che si è affermato negli ultimi anni anche nel passaggio dal primo al secondo grado della secondaria. Chissà se prima o poi verranno analoghe indicazioni anche dal ministero dell’istruzione.
Le finalità richiamate – facilitare la transizione dalla scuola secondaria di II grado all’università e ridurre il numero degli abbandoni universitari – sono correlate all’ esigenza di innalzare il tasso di passaggio dei diplomati a studi di livello terziario e di contenere l’ampio gap tra immatricolati e laureati. I dati degli ultimi anni, anche prima della crisi pandemica, dicono che l’Italia, penultima nella classifica EU-27 per percentuale di laureati sulla popolazione tra i 30 e i 34 anni ( 27,8% vs 40% della media e dell’obiettivo europeo 2020 ), si caratterizza per una contrazione delle immatricolazioni, iniziata una decina d’anni fa, che non è stata mai del tutto compensata, e per troppo lenti miglioramenti del tasso di conseguimento dei titoli finali. Nonostante il maggior peso, rispetto ad altri Paesi, dell’istruzione liceale che ha come sbocco prevalente l’accesso a percorsi accademici, i diplomati che a 19-20 anni si iscrivono all’università superano attualmente di pochi decimali il 50% mentre il tasso di abbandono viene stimato attorno al 30% (con spiccate differenze tra percorsi di primo livello, magistrali a ciclo unico e magistrali biennali, e anche per campi disciplinari e aree territoriali). Sebbene poco se ne parli, la patologia della dispersione e della rinuncia a concludere i percorsi non è grave, dunque, solo nell’istruzione scolastica. Le cause di tutto ciò sono molteplici. Tra cui, si sa, c’è l’attivazione molto tardiva e la portata finora assai modesta dell’istruzione tecnica e professionale di livello terziario che solo con il consistente investimento del PNRR dovrebbe nei prossimi anni svilupparsi almeno nel canale non accademico ( gli ITS ), mentre è ancora incerto lo sviluppo dentro le università di lauree triennali professionalizzanti. Ma pesa molto, rendendo problematico anche il previsto potenziamento degli ITS – il profilo di scuola di serie B, rispetto ai licei, degli istituti tecnici e professionali, i cui diplomati accedono di conseguenza all’università in misura molto minore ( 34,7 e 23 per cento rispettivamente ) dei liceali ( 87,5% ) e molto più frequentemente non arrivano in fondo. All’andamento non brillante delle immatricolazioni contribuiscono del resto anche altri fattori, come il mancato sviluppo del lifelong learning, dell’apprendistato di alta formazione, della formazione continua di livello specialistico. L’emorragia degli abbandoni, con tassi troppo alti per poter essere considerata come fisiologica, fa il resto. E qui incidono una spesa pubblica per l’università più avara che in altri Paesi ( 4% del PIL vs una media europea del 4,7% ), l’insufficienza delle politiche di diritto allo studio a fronte dei costi in particolare per i fuori sede, la perdita di attrattività degli studi universitari in considerazione del progressivo restringersi della forbice retributiva nel mercato del lavoro tra diplomati e alcune tipologie di laurea, il noto mismatch tra competenze in uscita dall’università e fabbisogni professionali. Ma gli abbandoni in molti casi derivano anche dal fatto che i diplomati, anche liceali, non hanno una preparazione sufficiente per misurarsi con successo con gli studi universitari. Parlano chiaro, in proposito, le rilevazioni Invalsi sugli apprendimenti degli studenti dell’ultimo anno di scuola secondaria di secondo grado.
Le criticità non sono riconducibili solo o principalmente a deficit di orientamento. Ma è plausibile che anche questi non aiutino. Secondo Almalaurea è dopo il primo anno di corso che si riscontra il più vistoso picco degli abbandoni, con il 25% degli studenti che rinuncia a proseguire gli studi o che prova a cambiare facoltà, anche ripetutamente, non sempre con successo, e comunque accumulando scoraggianti ritardi. Altre indagini rilevano che più della metà degli studenti sceglie l’indirizzo universitario solo dopo gli esami di maturità, in mezzo a mille incertezze, senza sufficiente informazione, seguendo spesso mode o consigli di parenti, amici, coetanei, senza riflessione sul tipo di impegno a cui si andrà incontro e sull’adeguatezza o meno di competenze, motivazioni, aspettative rispetto agli studi scelti. C’è però da chiedersi se il modello predisposto dal decreto, in primo luogo la corsualità, risponda a quello che servirebbe. Se è infatti sensato che le attività orientative non si riducano a spot più o meno pubblicitari concentrati nell’ultimo anno di scuola e si sgranino invece lungo tutto il triennio, il nutrito elenco degli obiettivi, non solo informativi ma formativi che viene delineato nel decreto richiederebbe ben altro che uno o due corsi di 15 ore affidati a professori, ricercatori, esperti esterni. Si tratta infatti di “far capire il valore della formazione universitaria, informare sull’intera gamma delle opportunità, fare esperienza di didattica disciplinare attiva, partecipativa, laboratoriale, sviluppare processi di autovalutazione, verificare il possesso delle competenze necessarie, individuare modalità per ridurre gli eventuali gap”, e così via. Un vero e proprio programma educativo che avrebbe bisogno di altri tempi, altre figure professionali, altre modalità. Ci sono, in Europa, sistemi scolastici che prevedono nei curricoli attività formative opzionali di carattere orientativo o dedicano interi semestri all’argomento, e insegnanti o altri operatori appositamente qualificati a svolgerle. Da noi sembra, come avviene spesso, che ci si debba accontentare di metterci una pezza.
Fiorella Farinelli Politica e saggista, docente esperta di istruzione e formazione, componente dell’Osservatorio nazionale per l’Integrazione degli alunni stranieri