Alunni in calo
La scolarizzazione di massa ha visto per molto tempo aumentare gli studenti nelle aule e l’espansione del servizio è stata progressivamente la garanzia che la Costituzione offriva per raggiungere la parità dei diritti. Il numero degli alunni è tuttora il riferimento organizzativo per l’assunzione del personale, i requisiti di costruzione edilizia; le classi sono il parametro di funzionamento in diretta corrispondenza con la spesa dello Stato.
La scuola si può considerare lo specchio del modello di sviluppo di un Paese ed anche in periodi di crisi economica c’è chi si è impegnato nell’innovazione per preparare i profili richiesti al momento della ripresa, per avere cioè competenze adeguate a gestire il cambiamento. In Italia invece l’istruzione è stata considerata più un costo che un investimento, in un costante braccio di ferro con il ministero dell’economia, soprattutto per quanto riguarda la formazione delle classi e la definizione dell’organico.
Le riforme che si sono susseguite hanno introdotto modifiche in parti del sistema, ma il motore fondamentale resta il collegamento tra alunni-classi-personale, saldamente nelle mani degli economisti che ogni anno in base alle disponibilità di risorse sono in grado di incidere profondamente sulla struttura mettendo a rischio anche quelle variazioni che magari avevano dato buoni risultati.
La rigidità e l’uniformità dei curricoli crea non pochi scompensi la dove ci sono movimenti di popolazione e cambiamenti repentini di indirizzi, da qui il fenomeno delle “classi pollaio”, nonché la difficoltà di funzionamento dei laboratori. Il ritorno al maestro unico non ha certo giovato alla qualità della didattica, tanto è vero ad esempio che le discipline espressive nella scuola primaria vengono supportate da agenzie esterne. Senza parlare poi di una normativa che vorrebbe che i docenti si occupassero dei “bisogni educativi speciali”, sia che si tratti di inclusione che di valorizzazione dell’alto potenziale cognitivo, facendo ricadere il tutto soltanto sulla didattica, senza supporti in aggiunta.
E si potrebbe continuare accennando al centralismo burocratico che obbliga a calcoli uguali per tutto il territorio nazionale quando la migrazione interna ha costretto certe realtà ad avere risorse insufficienti per evitare che da altre parti ci fosse un eccessivo impoverimento. Senza contare poi gli immigrati, che arrivano magari in corso d’anno e che faticano a trovare posti nelle classi e personale disponibile.
La capacità di offrire un servizio aderente alle esigenze del territorio, che ovviamente non sono solo quantitative, è la principale critica che viene rivolta da quelle regioni che chiedono maggiore autonomia nella gestione, a fronte della mancanza di flessibilità da parte del sistema per rispondere alla domanda sociale ed al modo del lavoro.
È sempre stato il ministero dell’economia a determinare le poste di bilancio per l’istruzione e sulla base delle disponibilità si facevano le previsioni sulla formazione delle classi; in quella sede venivano definite le assunzioni del personale relative alla sostituzione di una quota di posti vacanti, determinando così anche l’enorme precariato che ci trasciniamo da tanto tempo. Il ministro Bussetti bandisce i concorsi ma sempre nell’ambito di quegli spazi finanziari, che peraltro non consentono nemmeno la stabilizzazione dell’organico.
Ogni anno una battaglia per l’ampliamento del servizio, salvo che in tempi più recenti si affaccia il decremento demografico. Il calo delle iscrizioni per il prossimo anno è già significativo e preoccupa non solo per l’invecchiamento del Paese, ma anche per le aule che tendono a svuotarsi. Un calo contenuto nelle regioni del nord, l’Emilia Romagna è l’unica che cresce, molto più consistente al sud.
La situazione economica dei vari territori mantiene alta la migrazione sia interna che esterna e determina lo spopolamento delle zone che ristagnano. E’ giunto però il momento di considerare l’aspetto qualitativo di questi numeri e superare da un lato le modalità di gestione dei suddetti parametri, e, dall’altro, la pura e semplice difesa di posti di lavoro, che pur avendo un riferimento in norme e principi generali a livello nazionale devono essere pienamente inseriti nella realtà sociale e produttiva in cui la scuola opera.
Non è più il tempo di pensare all’unità nazionale attraverso l’uniformità degli adempimenti, ma è il risultato che deve interessare tutti, a garanzia di equità, mentre la gestione va posta accanto a ciascun alunno, con i suoi bisogni speciali e a ciascuna realtà, con l’autonomia della scuola e dei territori. Nei Paesi ad alto decentramento gli esiti sono migliori a volte anche senza un sistema di valutazione interno.
Di nuovo il Ministro ha commentato questi dati dicendosi pronto a rivedere i parametri sulle autonomie scolastiche in maniera più tarata sul territorio. A questo proposito va considerata anche la revisione degli enti locali, ma attenzione che la spending review è sempre in agguato. Già all’epoca del ministro Tremonti circolavano idee sul ridimensionamento delle autonomie scolastiche, nonostante la legge sui piccoli comuni, che giace inapplicata, preveda che nelle così dette aree interne sia il servizio scolastico a fungere da collante sociale.
Per evitare che il centralismo continui sulla strada dello stretto rapporto alunni-classi-personale, occorre affrontare la situazione demografica cercando innanzitutto di valorizzare il ricco patrimonio di stranieri, compresi quelli non accompagnati. La nostra economia dovrà far leva su questi giovani, evitando che una generazione rimanga senza istruzione; finora il nostro sistema sta accumulando troppi abbandoni dalla scuola, ragazzi che non studiano più e non lavorano. Forse è il caso di rimotivare quei giovani, magari rinforzando i CPIA e/o la formazione professionale e riqualificarli sul fronte delle nuove professionalità, utilizzando quei docenti che possono esprimere interesse e preparazione sul fronte della formazione continua.
Se calano gli alunni non possono calare anche i docenti, ma bisogna diversificare le loro attività, in un’ottica di sussidiarietà, investendo sulla formazione di base, sul tempo scuola, sullo sviluppo culturale e professionale e nei diversi ambienti di apprendimento. La tendenza però è sempre stata: meno alunni meno soldi; è fin troppo ovvio che a minor quantità debba corrispondere maggiore qualità e ne avremmo molto bisogno. Speriamo che questa tendenza possa essere invertita, ma non basta annunciare concorsi, occorre un progetto di lungo periodo.
Oltre agli investimenti sul sistema si rendono sempre più necessarie modifiche interne che tendano a creare maggiore flessibilità nel curricolo per gli studenti e per i tempi e le modalità di funzionamento per quanto riguarda il personale. Si pensi a come organizzare nuovi spazi, con l’aiuto delle tecnologie, per apprendimenti attivi, che facciano delle scuole dei “civic center” per il territorio, con orari diversificati che comportino l’apertura delle stesse per l’intera giornata, potendo contare sull’organico di potenziamento, utile per una didattica che vada oltre le competenze formali, i curricoli ordinamentali, le età degli allievi. Ma qui sarebbe necessaria maggiore autonomia, perché la scuola possa incontrare davvero la domanda sociale e gli enti territoriali la possano riconoscere e sostenere come elemento di sviluppo del territorio stesso. La rigidità dei piani di studio, perché tutto deve essere dato in base ad orari prefissati, e i vincoli per le caratteristiche professionali del personale pongono dei forti limiti all’azione locale delle scuole stesse, quando non si debba fare festa il sabato perché non ci sono fondi per il riscaldamento.
Quanto poi al successo formativo il procedere obbligatorio del percorso all’interno di classi di età diminuisce la partecipazione degli studenti soprattutto nelle scuole superiori, ma ne limita anche l’orientamento e si rischia la dispersione se di fronte a delle difficoltà in qualche materia si debba ripetere tutto un anno. C’è chi propone di sostituire la classe con i corsi disciplinari in modo che il curricolo acquisti la suddetta flessibilità, lavorando su livelli di apprendimento autonomi, che consentono comunque di mantenere lo stesso gruppo di coetanei.
Una tale impostazione derubrica a questione organizzativa la bocciatura, che invece fa ancora parte di un dibattito quasi ideologico. La valutazione così può assumere il suo carattere formativo senza lo spauracchio di ripetere l’anno per tutte le materie, di fronte solo ad alcune insufficienze andando così ad inficiare i risultati positivi. È necessario però superare lo scrutinio alla fine di ogni anno in cui la normativa richiede la media del sei.
Il vincolo più in generale sembra essere quello della classe, sulla quale ruota però tutta l’organizzazione della didattica. Essa non solo segue l’evolversi del percorso di studi per quanto riguarda i contenuti e le conoscenze necessarie, ma assume un valore educativo per le relazioni che si sviluppano tra i suoi componenti e per le ricadute che queste hanno su ciò che si impara. Le classi, che perlopiù corrispondono alle aule, sono formate pensando agli indicatori di crescita personale e sociale e sono un punto di riferimento per l’equità socio-culturale della scuola stessa.
Le scuole non hanno dimostrato di servirsi molto della flessibilità, perché i vincoli burocratici sottesi non lo consentono e questo condiziona tutta una serie di attività che ruotano attorno all’apprendimento, come ad esempio la gestione dei debiti e dei corsi di recupero, ma si potrebbe pensare di rendere stabile il sistema dei crediti e dei percorsi personalizzati, che fa capolino agli esami di maturità o in altri percorsi di istruzione e formazione professionale.
La diminuzione degli allievi diventerà strutturale nel nostro sistema, ma potrebbe essere un’occasione per adottare cambiamenti che in assenza di un “nuovo pensiero” cerchi di adeguare alcuni dispositivi che facilitino i rapporti con i vari Paesi europei e diano più spazio e valore all’internazionalizzazione dei nostri percorsi formativi, tendano a rinegoziare gli obiettivi finali e le modalità di transizione con i vari soggetti culturali, sociali e del lavoro. Si porti a compimento l’autonomia delle scuole e dei territori nel settore dell’istruzione, consentendo una gestione degli strumenti della didattica e dell’amministrazione a livello decentrato.
Gli studenti devono essere coinvolti nella definizione del proprio piano di studi con un curricolo più flessibile che aiuti l’orientamento e nello stesso tempo agisca per la maturazione responsabile e una cittadinanza sociale attiva. Si pensi ad esempio che la diminuzione di un anno delle scuole superiori, come già in atto a livello sperimentale, possa incrociare al diciottesimo anno il secondo canale professionalizzante, ed il diciannovesimo possa essere utilizzato per un più efficace e generalizzato rapporto con l’Europa, con un anno di volontariato anche a livello internazionale, l’alternanza scuola-lavoro, la possibilità di maturare crediti per l’istruzione superiore o il lavoro.
Il curricolo nazionale deve essere essenziale, con i docenti nominati dallo Stato; un organico di potenziamento, con contratti variabili, dovrà servire ad aumentare le aree interdisciplinari, che operano attraverso gruppi di alunni e di docenti con l’aiuto delle tecnologie e nuovi spazi di apprendimento. In quel contesto il corso disciplinare non è soltanto un problema di riacquistare nozioni in quel determinato campo del sapere, ma un’azione formativa più ampia capace cioè di recuperare e di promuovere e motivare. Le valutazioni saranno più credibili se ciò che si valuta è sostenuto da significati e prospettive.
Se poi si potrà intervenire sul quadro contraddittorio della valutazione della nostra scuola tre sarebbero le direzioni da intraprendere:
- superamento del decreto Gelmini: la valutazione deve sempre essere formativa, in un’ottica di personalizzazione e spingere al costante miglioramento, attraverso un’offerta sempre più intrisa di esperienza lavorativa e sociale, in una prospettiva di formazione permanente
- allungamento dei periodi di sbarramento: anziché un anno, due, come è previsto nell’attuale ordinamento (2+2), con il termine a 18 anni
- certificazione qualitativa delle competenze, con traguardi da usare come crediti per il lavoro e ulteriori percorsi formativi. Se anche l’università dimostrasse maggiore fiducia nei confronti di risultati scolastici, accreditando le competenze e continuare a valutarle ed arricchirle cambierebbe l’approccio anche nei licei, così come succede per gli istituti tecnici e professionali con le imprese
Alla fine anche l’esame di stato sarebbe superato come unica modalità di accertamento. Ci potrebbero essere valutazioni diverse altrettanto rigorose e magari più efficaci.
Gian Carlo Sacchi