A proposito di “Diritto al successo formativo”
Circola da diverso tempo in molti scritti sulle politiche scolastiche degli anni passati la tesi per cui l’introduzione, a partire dalle riforme del ministro Berlinguer, del “diritto al successo formativo”, che voleva garantire a tutti gli studenti la promozione a prescindere dai risultati raggiunti, avrebbe compromesso la serietà e la qualità della scuola. Tra gli ultimi esempi di questa narrazione ritroviamo il libro di Mastrocola e Ricolfi Il danno scolastico, che cita il “diritto al successo formativo” come una forma di lassismo valutativo voluta dalla “pedagogia progressista”, opinione questa condivisa da molti altri più o meno illustri saggisti ed articolisti. Si tratta di un grossolano fraintendimento: il successo formativo dei giovani è un obiettivo istituzionale, da realizzare predisponendo gli strumenti necessari per promuoverne la realizzazione, e non è mai stato un diritto soggettivo, ovvero la garanzia della promozione assicurata, e se qualcuno lo afferma o lo ha affermato in passato si sbaglia o si è sbagliato di grosso.
Vale dunque la pena di fare un po’ di chiarezza ricostruendo la genesi di questa terminologia. Le espressioni “obbligo formativo” e “successo formativo” furono usate nel l’introduzione del Regolamento recante norme in materia di Autonomia (DPR 275/99) e nell’applicazione della legge 9/1999 che innalzò l’obbligo di istruzione.
La volontà di prolungare l’obbligo scolastico aveva provocato un vivace dibattito tra chi proponeva di innalzare i livelli di istruzione della popolazione giovanile attraverso due anni ulteriori di permanenza nella scuola e chi, pur condividendo l’obiettivo generale, si trovava in disaccordo sulle modalità di questo innalzamento, paventando che altri due anni di frequenza obbligatoria della scuola dopo i 14 anni avrebbero accresciuto la disaffezione e la dispersione scolastica, producendo al massimo una frequenza forzata ma improduttiva da parte di molti giovani. Stava inoltre maturando la consapevolezza che quello che contava non fosse il percorso scolastico seguito ma fossero i risultati raggiunti (learning outcomes); sembrava dunque inutile obbligare tutti gli alunni ad ulteriori due anni di frequenza nella scuola senza dare loro la prospettiva di ottenere un titolo di studio al termine del percorso.
Si scelse la via intermedia, ovvero elevare, “in sede di prima applicazione” della legge l’obbligo scolastico a nove anni, introducendo in compenso, con un successivo provvedimento (l.144/99, art.68) l’obbligo di frequenza di attività formative fino al compimento del diciottesimo anno di età. L’obbligo poteva essere assolto nel sistema di istruzione scolastica (che nella prospettiva della riforma dei cicli scolastici sarebbe dovuta terminare a 18 anni), nel sistema della formazione professionale di competenza regionale e nell’esercizio dell’apprendistato ed era comunque assolto col conseguimento di un diploma di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale. Era dunque possibile, per chi otteneva la qualifica professionale a 17 anni (cioè l’età normale di conseguimento della qualifica), terminare con un anno di anticipo rispetto al vincolo dei 18 anni.
Si trattava di un’idea rivoluzionaria: l’obiettivo non era più semplicemente obbligare i giovani a frequentare il percorso scolastico, ma far sì che nessun giovane abbandonasse il suo iter formativo senza aver ottenuto una qualificazione significativa, creando dunque i presupposti per il successo formativo. Successo formativo ovviamente non significava garantire la promozione od il titolo a prescindere dall’impegno dei giovani e dai risultati raggiunti, ma adottare tutti gli strumenti e le iniziative necessarie per evitare il loro abbandono prima del conseguimento del risultato finale, ferma restando la necessità per gli studenti di dimostrare il raggiungimento dei livelli richiesti. Dunque nessun buonismo e lassismo, al contrario attenzione prioritaria ai risultati effettivamente raggiunti!
Il modello seguito si richiamava in qualche modo al sistema tedesco, che prevede la frequenza obbligatoria full time fino ai 15 anni, e successivamente il proseguimento “full time” nel percorso scolastico successivo oppure la frequenza part-time, nella formazione professionale/apprendistato fino ai 18 anni.
Era quindi un grande passo in avanti rispetto al modello precedente, in quanto spostava decisamente in alto l’asticella della permanenza nel sistema scolastico/formativo fissando un traguardo da raggiungere. Purtroppo questa norma ebbe scarsa applicazione, sia per l’incapacità di molte Regioni di offrire una formazione professionale degna di questo nome, sia per la mancanza di un sistema efficiente di orientamento e di monitoraggio dei percorsi degli studenti, che potesse sostenere i giovani nella scelta del percorso da seguire e verificarne il compimento.
L’obbligo formativo, seppur ridenominato “diritto – dovere alla formazione” venne sostanzialmente confermato dalla successiva legge 53/2003; tuttavia anche in questo caso non furono adeguatamente sviluppati i necessari strumenti di sostegno, monitoraggio e controllo dei percorsi. Infine il Ministro Fioroni fissò a 10 anni il limite dell’istruzione obbligatoria, e di obbligo formativo a 18 anni non se ne parlò praticamente più.
Giorgio Allulli Vicepresidente della Rete europea della qualità dell’Istruzione e formazione professionale (EQAVET); già direttore delle aree sistemi formativi del Censis, dell’Isfol e della Conferenza dei Rettori.