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Dai CTP ai CPIA: basta questo per un sistema di Lifelong Learning in Italia?

Pubblicato il: 12/11/2012 15:49:52 -


Quali sono i riferimenti per gli adulti che, usciti dai circuiti scolastici, hanno bisogno di manutenzione, integrazione, rafforzamento delle competenze di base? Un’analisi di problemi e soluzioni.
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Quasi un terzo degli Italiani tra i 18 e i 45 anni, rileva l’OCSE, ha competenze di base insufficienti. Logorate, fragili, inadeguate. Si chiama “rischio alfabetico”, riguarda anche persone che hanno concluso il primo ciclo di istruzione, compromette un po’ tutto, la salute, il lavoro, la cittadinanza, il successo scolastico dei figli. È un problema, tra i più cruciali, che dovrebbe interessare il discorso pubblico sull’istruzione. Collegato a quello dell’ampio bacino di giovani e meno giovani usciti dai circuiti scolastici e formativi senza un titolo secondario. Anche in Italia ci si lavora da tempo. Disponiamo di analisi, proposte, esperienze di qualità. Sappiamo che non sono mai lineari i modi con cui gli adulti rientrano in formazione e che sono molto importanti, proprio per far emergere ed evolvere una domanda sempre “difficile”: le offerte formative flessibili, articolate in unità cumulabili, percorribili in tempi/modi diversificati, capaci di riconoscere ogni competenza acquisita. Nell’educazione degli adulti la domanda non è mai standardizzabile, tanto meno può esserlo l’offerta. Di tutto ciò non sembra tenere abbastanza conto il Regolamento, varato in via definitiva il 4 ottobre dal Consiglio dei Ministri, che trasforma i CTP (Centri Territoriali Permanenti) in CPIA (Centri Provinciali d’Istruzione per gli Adulti). Di più. Si coglie ad occhio nudo non solo che in più punti si allontana dalle norme (L. 296/2006 e DM 25.10.2007) che dovrebbe solo rendere attuative, ma soprattutto che le soluzioni predisposte non sono granché coerenti con il lungimirante approccio della parte della riforma Fornero sull’apprendimento permanente. Possibile che si sia sottovalutata l’opportunità di un confronto tra Pubblica Istruzione e Lavoro?

Non convince, intanto, la cancellazione dell’ “alfabetizzazione funzionale”, una tipologia di offerta prevista dal DM 2007, che si scioglie inopinatamente in un’altra, quella per il rilascio della certificazione delle competenze-chiave del nuovo obbligo di istruzione. Ne deriva, tra l’altro, la chiusura dei CPIA a chi, in condizione di “rischio alfabetico”, sia però in possesso di licenza media. Dove può rivolgersi, dunque, chi ha bisogno di manutenzione, integrazione, rafforzamento delle competenze di base? Dell’inglese o dell’informatica che servono a tutti? Di un italiano più corretto, di una matematica meno elementare, di una migliore capacità di leggere/comprendere/scrivere un testo? Di quella rifamiliarizzazione con l’apprendimento strutturato che può convincere a riprendere la strada dell’istruzione e della formazione? L’alfabetizzazione funzionale, se rigorosa, certificata, supportata da interventi orientativi, risponde ai modi “naturali” con cui gli adulti culturalmente deprivati riacciuffano il bandolo della propria crescita. Tutto ciò, d’ora in avanti, viene demandato agli Enti Locali, al privato sociale, alle università dell’età adulta, tutti soggetti che possono esserci o non esserci, e che da soli non possono rilasciare certificazioni. E poi c’è una domanda: la rinuncia dell’EDA(Educazione degli Adulti) pubblica a questi compiti si spiega solo con l’obiettivo di qualche (modesto) risparmio o anche con l’incapacità di evitare che sotto il coperchio dell’ “alfabetizzazione funzionale” vivano anche attività del tutto futili? Non pare, comunque, che in questo secondo caso l’unica soluzione possa essere la mutilazione.

Sparisce, del resto, anche l’innovazione-chiave introdotta dalla norma, cioè il superamento della separazione tra CTP e serali degli istituti scolastici superiori. Separati erano prima, e separati infatti rimangono perché, se i CPIA dilatano l’offerta fino alla certificazione delle competenze–chiave del nuovo obbligo di istruzione, i serali restano invece “incardinati” dove stanno. Difficile non vedervi una rinuncia, per ragioni probabilmente estrinseche, alla possibilità che anche nei serali si consolidi un’impostazione più consona alla filosofia del “lifelong learning” e più rispondente ai bisogni formativi e della vita adulta. Attività “sostenibili”, predicano i documenti europei. Percorsi non più facili, non necessariamente più brevi, ma più facilmente declinabili sulle esigenze, le competenze in essere, le aspettative individuali. Una prospettiva – anche di sviluppo – di un’offerta formativa che, proprio perché troppo spesso fotocopia dei percorsi ordinari – stessi tempi/calendari di svolgimento, stessi curricoli, stesse classi chiuse, stesso disciplinarismo – è quanto di meno “attrattivo” possa esserci per un pubblico adulto. Lo dimostra il basso numero di frequentanti – neanche 70.000 su cinque classi – e il tasso invece altissimo (qui sì, lo spreco anche economico è intollerabile…) di assenteismo e abbandoni. Ma il Regolamento anche nell’assetto non innova granché. Dice che tali percorsi, “che fanno riferimento alle conoscenze, competenze, abilità definiti per gli istituti tecnici, professionali, artistici” (dei licei, come è noto, non vi è cenno), hanno un orario “obbligatorio” pari al 70% di quello ordinamentali. Perché proprio il 70%? Fatti due conti, risulta che i tre periodi didattici in cui si articolano i percorsi serali fanno un totale di ben 3.675 ore, assai più di quanto richiesto dalle nostre migliori esperienze, tra cui “Polis” del Piemonte e “Diplomarsi on line” della Toscana. Tale scarto, dovuto all’intenzione non di alleggerire ma di flessibilizzare, si realizza con sistematici riconoscimenti delle competenze in essere, un’organizzazione modulare che consente passaggi individuali accelerati da un livello al successivo, le tecnologie per la formazione a distanza (Toscana) o le opportunità di un’osmosi tra scuola e formazione professionale (Piemonte). Tutte innovazioni possibili, anzi necessarie, come altre con analoghi effetti. Perché, dunque, quell’orario “obbligatorio” così pesante? Forse per rassicurare sulla tenuta dell’organico? Sarebbe forse meglio fissare soglie minime-massime entro cui a decidere siano gli istituti scolastici (sempre che siano davvero autonomi…). Non si sfugge, in verità, all’impressione che la riduzione al 70% obbedisca a criteri che col merito di quel che si deve fare hanno poco a che fare, e che troppi vincoli – e troppa distanza dall’idea di apprendimento permanente – impediscano di prospettare modelli meno rigidi. È tra l’altro sconcertante l’esclusione dai serali di chi sia già diplomato. Questo è uno dei punti in cui si fa chiarissima la scarsa considerazione nei confronti della riforma Fornero. Significa, infatti, che un lavoratore con un diploma obsoleto o inutile per le sue prospettive professionali non può trovare nel pubblico un percorso di studi che, riconoscendo le competenze acquisite tra studio e lavoro, gli permetta di arrivare in tempi relativamente brevi a un titolo utile. Ma l’apprendimento permanente non dovrebbe essere anche accesso a una maggiore occupabilità?

Ci saranno, più avanti, anche delle “Linee Guida” che forse introdurranno dei miglioramenti. C’è da sperarlo. Bisognerebbe trovare il modo di concretizzare anche in Italia una delle raccomandazioni di Lisbona 2000: “I sistemi di formazione e di istruzione devono adattarsi ai bisogni dell’individuo e non viceversa”.

Fiorella Farinelli

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