Le 150 ore per il diritto allo studio
La notizia potrebbe essere che questa volta a scrivere di 150 ore – il congedo retribuito per il diritto allo studio ottenuto nel 1974 dal sindacato dei metalmeccanici – non è un over 60. E che la ricostruzione storica di quella vicenda, sebbene animata dalle voci appassionate di molti suoi protagonisti, non è affatto un’“operazione nostalgia”. Francesco Lauria, autore del bel libro uscito qualche settimana fa per le Edizioni Lavoro, dottore di ricerca all’università di Modena e impiegato presso la CISL nazionale, negli anni settanta era ancora un bambino. Quanto all’approccio con cui rilegge una ricca documentazione e indaga nella memoria degli intervistati (fra cui Paola Piva, Franco Bentivogli, Tonino Lettieri, Stefano Musso, Roberto Pettenello), è evidente che è dell’oggi che vuole arrivare a discutere. E anche del domani. Per la precisione, di quel lifelong learning che in Italia non arriva mai; delle difficoltà di ogni tipo di formazione dentro e per il lavoro; degli stenti dell’educazione degli adulti nella scuola pubblica; della diffusa sottovalutazione politica e anche sindacale dell’impatto negativo, in termini economici, sociali, civili, dei deficit culturali di tanta parte della popolazione, anche giovane. Analisi, domande, proposte su cui rispondono e rilanciano Tullio De Mauro (che firma la post-fazione), Massimo Negarville (dell’associazione di università popolari UNIEDA), Giovanni Avonto (storico dirigente piemontese e nazionale della CISL). Perché negli anni Ottanta e seguenti è mancata la capacità di fare di una conquista operaia il trampolino di lancio di un diritto di tutti? Che cosa bisognerebbe fare oggi perché l’apprendimento lungo tutto il corso della vita diventi una priorità nelle politiche formative e in quelle per il lavoro? Temi che basterebbero da soli a riempire un libro. Ma a questo filo conduttore se ne intreccia un altro, altrettanto attuale. Ai resoconti della discussione sindacale di allora, tra chi le 150 ore le voleva solo dentro la scuola pubblica e chi guardava anche ad altre possibilità di attuazione si aggancia infatti, nella ricerca di Lauria, la riflessione sul ruolo che in un welfare rinnovato dovrebbero giocare le energie e le intelligenze della società civile, il volontariato e il privato sociale, e – per quanto riguarda il sindacato – il recupero di quella “mutualità” così importante alle origini del movimento operaio e però tradita dalle successive derive stataliste. Una riflessione forse troppo complessa rispetto a quel contrasto di idee in cui le suggestioni di un’alleanza operai-studenti per la trasformazione radicale della scuola pubblica ebbero la meglio sul proposito di sperimentazioni più libere e più innovative all’ombra degli enti locali e dell’associazionismo. Ma è vero che di statalismo si può morire e che, per restare alle politiche educative, l’identificazione tra pubblico e statale ha fatto e continua a fare non pochi danni. Quanto alle 150 ore, le alleanze di allora non furono con gli studenti ma piuttosto con gli insegnanti, e la scelta di collocare i corsi nella scuola pubblica, se affermò il diritto dei lavoratori a conseguire un titolo formale, impose anche vincoli che dovevano col tempo rivelarsi nefasti. Soprattutto quando, caduto l’intervento diretto del sindacalismo industriale, entrarono in campo con i sindacati della scuola le regole tipiche dell’impiego statale, e l’interesse all’occupazione e alle tutele degli insegnanti più che alla qualità didattica dei corsi e a una loro possibile evoluzione a fronte di una nuova domanda. Ci sono entrambi questi aspetti nella prefazione di Bruno Manghi, e anche il pensiero che una via diversa avrebbe assicurato tutt’altra vitalità. Ma più di un milione di lavoratori di nuovo a scuola in dieci anni sono stati comunque un’impresa straordinaria, ed entusiasmante. Perché, allora, l’oblio di oggi, della politica e anche del sindacato? E perché nessuna iniziativa capace di scelte altrettanto innovative? Secondo Manghi perché imbarazza, nella cultura politica e sindacale dei nostri giorni, un’esperienza che seppe combinare quello che oggi sembra il diavolo e l’acqua santa, la radicalità dell’alternativa e la capacità della costruzione. Secondo Bentivogli, segretario della FIM e poi della CISL nazionale , perché “oggi prevale il vivere senza innovazione, senza sorprese, senza il coraggio di spostare la notte più in là. Così le virtù fanno paura, e non si sale sulle spalle dei giganti forse per paura di cadere”. Sono parole che non riguardano, evidentemente, solo il lifelong learning.
Fiorella Farinelli