Oltre la scuola digitale: la rivoluzione 4.0 come strumento di democrazia – di Fabio Rocco
Pubblicato il 10.11.2017
In questi anni la scuola e l’economia hanno spinto molto sul pedale della digitalizzazione, senza però una profonda riflessione sui cambiamenti sociali legati alla tecnologia. La scuola “digitale” è fatta soprattutto di metodo, non solo di applicazioni tecnologicamente avanzate. Questo metodo necessita di molta ricerca, di una base teorica che declini come l’uso delle tecnologie in classe possa promuovere l’apprendimento, includere, ampliare l’accesso all’istruzione. Una didattica che usa le tecnologie per superare il paradigma dell’insegnamento solo trasmissivo, ereditato dalla società fordista del secolo scorso, per adeguarlo al contesto attuale. La parola chiave è democratizzazione: progettare assieme come usare le risorse, come condividere le idee e come realizzarle. Le ricadute di questi processi non sono solo scolastiche: affrontare le nuove sfide educative poste dal digitale significa anche chiedersi come influenzino la politica educativa e come possano contribuire a formare i cittadini di domani.
Martedì 31 ottobre presso l’ Istituto Tecnico Industriale “Francesco Severi” di Padova, che ha al suo attivo 12 classi digitali (diventeranno 15 il prossimo anno scolastico) ha ospitato un convegno dal titolo OLTRE LA SCUOLA 4.0, aprire le risorse educative e didattiche nell’era digitale.
Al Severi la questione della riprogettazione dei metodi d’insegnamento in funzione del digitale è attentamente seguita da molti docenti. Per questo la dirigente Nadia Vidale, in collaborazione con il suo vice prof. Ercole Mitrotta, con il prof. Carlo Cassol e con il prof. Franco Torcellan, dell’USR Veneto, hanno aperto immeditamente le porte alla proposta di organizzare un incontro con la prof. Lisa Petrides. Ho contribuito a mettere in rete gli attori dell’evento e ho avuto quindi la possibilità di intervistarla.
Ospite in questi giorni del consolato USA di Milano, per una serie di incontri in Italia, Lisa Petrides, è docente di Organizzazione e Leadership della Columbia University e fondatrice, nel 2002, dell’Iskme, (Institute for the Study of Knowledge Management in Education), con sede a Half Moon Bay, nella Silicon Valley. L’Iskme propone testi, idee e software, e insegna ai docenti ad usarli. Ha creato nel 2007 OER Commons, una biblioteca digitale pubblica: oltre 100.000 risorse educative consentono agli insegnanti di accedere universalmente a contenuti di apprendimento gratuiti. Nel 2009 ha istituito il Big Ideas Fest, un evento annuale che identifica tendenze e soluzioni innovative per le sfide chiave nell’istruzione.
Professoressa Petrides, perchè usare le tecnologie in classe?
L’uso delle tecnologie in classe permette di insegnare e apprendere seguendo i bisogni degli studenti: così l’apprendimento diventa personalizzato, diversificato a seconda delle necessità di ognuno, più consono a chi deve imparare. Si tratta di adattare in questo modo i contenuti al contesto, agli alunni, uscendo dal grande vincolo della trasmissione unilaterale della conoscenza. La maggiore opportunità per il cambiamento educativo è la decostruzione dell’offerta scolastica formale e la sostituzione con ambienti di apprendimento profondamente personalizzati.
Cosa non funziona nella didattica formale?
La didattica formale è un vincolo, un binario che traccia una strada obbligata per tutti, che non coglie le differenze di apprendimento e di potenzialità tra gli studenti. Inoltre non si adatta alle trasformazioni della società: dalla necessità occupazionale di assumersi responsabilità di interi processi richiesta ai giovani lavoratori di oggi; allo sviluppo di attitudini relazionali e di collaborazione, utili nel lavoro ma anche veicoli di un modo più inclusivo di vivere la propria apparteneza ad una comunità nazionale.
Di sicuro lo strumento tecnologico è necessariamente complementare, non può essere interamente sostitutivo dei materiali didattici tradizionali. Ciò che tiene insieme in un profilo educativo omogeneo la didattica formale e le dotazioni tecnologiche è il metodo.
In questa logica, i docenti assumono un ruolo più consapevole e partecipato, non si limitano più a seguire il libro di testo, ma devono elaborare modalità innovative, mettendo al centro l’apprendimento più che l’insegnamento. Attraverso l’uso delle tecnologie i docenti più motivati si pongono ogni giorno il problema di come rendere più appetibile l’apprendimento.
In questi anni attraverso il Piano Nazionale Scuola digitale l’Italia si è concentrata molto sull’innovazione tecnica mentre c’è scarsa attenzione alle ricadute sociali. Che ne pensa?
Ciò che conta è cosa la tecnologia può produrre, in fondo è solo uno strumento. Non credo sia sufficiente concentrarsi solo sulla parte applicativa, perché quella cambia ogni giorno.
I prodotti invece sono infiniti: risorse aperte e accesso ai dati, ogni fonte può essere integrata, usata a costo zero. Pensate ai sistemi bibliotecari integrati, come il nostro OER commons, l’italiano Wikitolearn, fino al caso sudafricano, dove degli studenti di dottorato hanno creato e condiviso dei testi di base di scienze, che venivano poi stampati dai tipografi di quartieri poveri. Questa buona pratica, dopo aver valutato la bontà dei contenuti, è stata autorizzata dal governo del Sudafrica e oggi questi testi si possono usare in classe. Esiste quindi una base di allargamento delle collaborazioni e delle conoscenze che va al di là delle mura scolastiche, creando condivisioni col territorio e allargando la base delle competenze per tutti.
Cosa significa per lei collaborazione?
Collaborazione significa lavorare insieme per sviluppare nuove idee, azioni e risultati, in cui tutto finisce per essere decisamente maggiore della somma delle sue parti.
In alcune scuole e università americane i docenti lo fanno, sono dei coach, degli allenatori di una squadra, dei mentori e delle guide. Hanno rinunciato all’approccio formale e i risultati con gli studenti sono sorprendenti. Si tratta di una teoria e di una pratica dell’insegnamento davvero innovativa. Oggi negli Usa sono già il 25 per cento degli insegnanti a seguirla.
Inoltre, dato che gli investimenti nel campo dell’istruzione sono in calo in tutto il mondo, la pratica della condivisione di risorse porta anche a un risparmio. Non all’inizio, quando c’è soprattutto bisogno di formare i docenti, ma sicuramente nel tempo la riduzione dei costi si fa sentire. Un esempio concreto: nei dodici anni di formazione obbligatoria i libri di teso dei bambini statunitensi costano circa otto miliardi di dollari. Queste risorse oggi potrebbero essere spese diversamente.
Fabio Rocco