La scuola schiacciata dal peso di un approccio clinico
Ondata di diagnosi senza precedenti
A partire dal 2010, grazie alla legge 170, la dislessia, la disortografia e la discalculia sono riconosciute come disturbi specifici dell’apprendimento (DSA). Il numero delle diagnosi dei disturbi specifici dell’apprendimento ha visto nel corso del tempo un costante e progressivo incremento, dal momento che proprio a seguito dell’emanazione della Legge 170, è salita la consapevolezza riguardo a tale fenomeno: le certificazioni sono passate dallo 0,9% dell’anno scolastico 2010/2011 al 3,2% del 2017/2018, per arrivare al 5,4% dell’a.s.2020/2021 nelle scuole statali. Con riferimento alla scuola paritaria, la percentuale degli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento ha raggiunto il 7,55% nell’a.s. 2020/2021.
Negli ultimi anni – come documenta l’ultimo Report sugli studenti con Disturbi Specifici dell’Apprendimento in Italia a cura del Ministero dell’Istruzione, aggiornato agli anni scolastici 2019/2020 e 2020/2021 – le diagnosi sono raddoppiate; le certificazioni di disturbi specifici di apprendimento sono state rilasciate più frequentemente nelle regioni del Nord Ovest, mentre permane un significativo divario di capacità diagnostica e di individuazione precoce, molto più bassa al Sud che al Nord.
In termini di composizione percentuale, i disturbi più diagnosticati sono quelli di dislessia, pari al 37,8% del totale, seguiti dai disturbi di disortografia con il 22,5% e dai disturbi di discalculia e di disgrafia, rispettivamente con il 20,7% e il 19% del totale.
Crescono sempre di più anche gli studenti universitari con dislessia e altri disturbi specifici di apprendimento, segno di un trend che non si arresta: nel 2020-2021 sono risultati quasi ventimila, con un aumento del 22 per cento rispetto all’anno accademico precedente.
Il fenomeno riguarda con ogni evidenza l’intero ciclo scolare: i primi segnali della presenza di disturbo d’apprendimento vengono riscontrati, tramite la somministrazione di specifici test in strutture sanitarie, già in età prescolare, quando tali disturbi non sono ancora del tutto manifesti e non sono ufficialmente diagnosticabili e riconosciuti. Queste pre-diagnosi consentono nelle rilevazioni di individuare gli alunni “a rischio DSA”, ossia quelli per cui vi è un’indicazione di rischio di disturbo specifico di apprendimento.
Ci troviamo forse di fronte a un rischio concreto di segnalazioni sproporzionate e immotivate, di una sopraffazione della clinica e della diagnostica in ambito formativo?
Di una stagione di eccesso di diagnostica neuropsichiatrica in Italia parla da tempo lo psicopedagogista Daniele Novara, secondo il quale stiamo bollando le nuove generazioni con mille sigle indicative di altrettanti malesseri neuropsichiatrici, che, nella maggior parte dei casi, di neuropsichiatrico hanno poco o nulla e si profila il rischio di creare un danno nel percorso scolastico[1]. Un fenomeno tutto italiano, lamenta Novara, a fronte delle rilevazioni dell’International Academy for Research in learning Disabilities, secondo la quale solo il 2,5% della popolazione scolastica mondiale dovrebbe incontrare problemi nella cognizione numerica e solo lo 0,5% sarebbe soggetto a un disturbo dell’apprendimento geneticamente determinato. Percentuali che stridono con i dati sulle segnalazioni in Italia, che parlano di circa un 20-30% di bambini, più o meno cinque per classe.
Non usa mezzi termini Novara, che definisce il boom delle certificazioni un business spesso in capo a strutture private: esistono centri privati che sfornano certificazioni dopo tre incontri o addirittura uno solo.
Proprio su questo tema urgente e ingombrante, viste le dimensioni assunte dal Duemila a oggi, Alessandra Condito – donna di scuola da sempre, prima maestra di scuola dell’ infanzia e poi dirigente scolastica in tutti gli ordini di scuola, ultimo in ordine di tempo il liceo -ha scritto un pamphlet dal titolo “Il tempo e la cura”. La sua analisi si arricchisce anche del punto di vista di madre, che in prima persona ha accompagnato l’iter diagnostico di dislessia e discalculia della figlia.
Il grido d’allarme
L’Autrice non teme la reazione di ira degli addetti ai lavori, psicologi, neuropsichiatri, logopedisti, e delle associazioni di genitori e lancia un grido d’allarme accorato, ma vibrante, verso una scuola e, più in generale, una società, che rischia di soffocare sotto un mare di diagnosi.
L’allarme non è certo per quelle diagnosi connesse a problematiche evidenti, gravi e conclamate, che servono a definire un disturbo del neurosviluppo, ma per quelle che vanno a certificare disturbi più o meno lievi, sulla soglia, di confine.
Il rischio è quello di ingabbiare e etichettare bambine e bambine, studentesse e studenti, dentro una definizione fissa della propria identità, di alunni con BES, guardati più per i loro bisogni, che per arrivare in un tempo a largo respiro a un comune traguardo di apprendimento.
“Disturbo” dagli anni Cinquanta agli anni Settanta era inteso in un’unica accezione: mancanza di rispetto per l’autorità dei professori e così nei decenni successivi. Lo spartiacque per il valore semantico del termine nel contesto scolastico è il nuovo Millennio, quando ciò che a scuola disturba è la “lentezza”, nella sua accezione di “svogliatezza” o addirittura di “stupidità”. Come se all’interno di una “gara” con tempi stabiliti, un bambino o una bambina non riuscisse a tenere il passo, costringendo la maestra a rallentare.
Si comincia a parlare di dislessia, discalculia e disortografia e le famiglie si rivolgono ai servizi pubblici, che rilasciano le prime certificazioni a quei bambini che leggono a fatica e lottano quotidianamente con le tabelline e con l’acca. Un riconoscimento del diritto a sbagliare più di altri, a avere più tempo per raggiungere un obiettivo e soprattutto a non essere vittime di lamentele e mortificazioni a voce alta da parte delle maestre.
Questo riconoscimento almeno in una prima fase appare come una conquista e una tutela, perché attesta che un bambino o una bambina più fragile può incontrare ostacoli nel percorso di apprendimento – leggere, scrivere e far di conto -, senza che ciò debba essere imputabile alla sua pigrizia.
Ma il cuore del problema per Condito è il tempo, un periodo di tempo a più largo respiro, di cui già i programmi didattici del 1955 parlavano, di un insegnamento individualizzato in relazione alle capacità di ciascuno, nel rispetto dei tempi per arrivare al comune traguardo.
L’Autrice si domanda se e quando a scuola si sia smarrito questo senso del tempo, in una rincorsa che accorcia il respiro e fa precipitare in una condizione di apnea.
I maestri a un certo punto sembrano essere entrati in sofferenza per mancanza di tempo e non essere pronti a darsi tempo, riconoscendo che proprio avere tempo per tutti e per ciascuno è l’arte dei maestri. Il tempo nella scuola lo abbiamo perso e, forse senza la necessaria consapevolezza, siamo passati alla politica dello sconto: leggere meno degli altri, scrivere testi più brevi, magari in stampatello.
E il tempo lento, o più lento, che, quando necessario, porta con sé anche la gioia del risultato a fatica conquistato, sembra scomparso dalle aule di scuole, schiacciato dalla “troppeità”.
La “troppeità” fa male alla scuola
La scuola non è un ipermercato: la prospettiva dell’Autonomia ha generato non pochi equivoci e ha messo in moto una centrifuga, abbagliata dalla possibilità di ampliare l’offerta formativa attraverso la logica additiva e consumistica dell’accumulo dei progetti, dei dispositivi e degli arredi, irretita dal marketing promozionale degli open day.
Tanto del tempo prezioso è stato risucchiato in operazioni di monitoraggio, rendicontazione e pubblicizzazione di progetti e sottratto al cuore della missione centrale della scuola: in altri termini la scuola centrifuga ha sottratto tempo alla cura educativa.
Condito va oltre, suggerisce una prospettiva pedagogica più attenta a tutelare tempi di ampio respiro, in cui sia possibile definire passo dopo passo le soglie di sviluppo di ogni alunno. E questa prospettiva pedagogica deve essere alleggerita il più possibile da screening e dalle gabbie di certificati e diagnosi.
Deve, inoltre, riprendere in mano con buon senso il tema della valutazione nel curricolo verticale e considerare l’errore, la difficoltà e i tempi di apprendimento più lunghi come aspetti normali di ogni percorso di apprendimento, nella logica di una valutazione evolutiva, attenta ai progressi più che agli errori.
Per invertire una tendenza che fa male alla scuola, bisogna avere il coraggio di mettere sul tavolo le questioni più critiche e urgenti e provare ad aprire e alimentare un dibattito costruttivo. Cosa che Alessandra Condito per amore della scuola con queste sue pagine ha provato a fare.
[1]D. NOVARA, Non è colpa dei bambini.Perché la scuola sta rinunciando a educare i nostri figli e come dobbiamo rimediare. Subito, Rizzoli, 2017;D. NOVARA, DSA o iperattivi? Forse solo monelli: i bambini malati immaginari e la troppa diagnostica neuropsichiatrica, in “Corriere della Sera”, 21/10/2017; AA.VV., Boom di alunni con DSA a scuola, Novara:c’è qualcosa che non va, in Orizzonte Scuola, 10/09/2023; C. DINI, Scuola e disturbi dell’apprendimento, il luminare: “È un vero business”, in Corriere Romagna, 9/06/2023
Rita Bramante Già Dirigente scolastica, membro del Comitato Nazionale per l’apprendimento pratico della Musica