Giovani, cittadinanza e costituzione
L’introduzione dell’educazione civica nella scuola è stato il primo tentativo di mettere insieme il sapere con la cittadinanza, facendo leva sul bicchiere mezzo pieno della crescita delle persone in un contesto di relazioni da sviluppare sul piano sociale e politico, mentre oggi sembra si sia costretti a guardare il bicchiere mezzo vuoto, cercando cioè di mettere un freno ai nostri “narcisi”, minacciandoli addirittura con un voto su “cittadinanza e costituzione”, per fronteggiare una serie di “devianze” che in ultima analisi si ripercuotono sulla qualità della stessa scuola e sui comportamenti sociali dei giovani. In mezzo ci sta la stagione che è culminata con lo “statuto degli studenti e delle studentesse”, quella dei diritti, della partecipazione, che si riteneva di democrazia matura, in grado di collegare la scuola direttamente con la società, quella che potremmo sintetizzare con gli organi collegiali e le consulte degli studenti.
Il documento che il Ministero ha diffuso per la sperimentazione cerca di ricostruire la storia di tale percorso formativo, ma non fa i conti con il cambiamento avvenuto nei giovani, evoca di essi un modello ideale, e sembra più interessato al rispetto dell’ordine che non all’efficacia pedagogica. A guardare le ricerche sul così detto “pianeta giovani” sembra che certi comportamenti non siano improntati tanto alla trasgressione quanto si tratti di mutamento profondo, cui non corrisponde un’attenzione specifica da parte degli adulti. Questi ultimi si aspettano conformità alle loro regole; alle richieste di senso dei giovani si cercano risposte sul fronte perlopiù economico; la relazione non viene educata, ma semplicemente gestita; i valori vengono predicati, ma nemmeno più tanto, e non praticati; la difesa, forse per sanare sensi di colpa da parte degli adulti, del giovane, diventato nel frattempo un despota, ad onta di ogni regola e dell’interesse generale.
Verrebbe da chiedersi: chi oggi debba studiare la Costituzione, e il voto andrebbe dato prima agli adulti, soprattutto a chi oggi manovra le leve della comunicazione.
Allora se i saperi “caldi” ci mettono in crisi, meglio tornare a quelli “freddi”; di fronte al dilagare dell’anarchia etica il maquillage della cultura funziona sempre, almeno in apparenza, che è poi questa che sembra contare di più. La Costituzione è per la cittadinanza, ma cosa significa oggi educare il cittadino? È una domanda da porre a coloro che intendono addirittura riformarla.
L’Unione Europea, anche se in maniera piuttosto debole, ha a sua volta elaborato le “competenze di cittadinanza attiva”. I giovani hanno il diritto di saperlo, per potersi orientare, e la scuola ha il dovere di contribuire a questa elaborazione e non solo dare i voti. Insomma non c’è chiarezza sulle regole, ma si invocano sanzioni, che, a giudicare dall’atteggiamento di certi genitori, vanno bene per i figli degli altri.
Una enorme quantità di dati e opinioni si incentrano sui comportamenti giovanili, fanno bella mostra sulle pagine dei giornali, poi più nulla; molte di loro servono più per capire il consumatore che interessarsi del cittadino. L’abuso di alcool o di sostanze stupefacenti provoca incidenti stradali, allora si abbassi la soglia di indagine, ma non si interviene pensando alle dipendenze nel lungo periodo, nemmeno alla prevenzione, che rimane pur sempre un compito dell’educazione: il benessere è dato soprattutto dall’essere bene, di cui abbiamo sentito parlare anni fa, forse con il piglio un po’ troppo ministeriale, nel “progetto giovani” e a cui si fa cenno nelle attuali “linee guida” come excursus del passato.
I più motivati allo studio sono i pendolari, si legge in una delle tante analisi, quelli cioè che fanno più sacrifici? Qui c’è un altro groviglio di questioni, che mettono in evidenza il ruolo della scuola nella mobilità sociale, come crescita del singolo per migliorare la propria condizione: sembra che questo cominci a fare la differenza per gli alunni immigrati. Oggi il problema non sembra più legato alle classi sociali: l’eccellenza non è riferita al censo o al benessere economico, ma la cultura dei genitori influenza ancora la scelta scolastica dei figli. In particolare il mondo del lavoro richiede sempre maggiori competenze per qualunque mansione e la formazione mette appunto in relazione la cittadinanza e lo sviluppo della comunità.
Nella società strutturata e trasmissiva erano i “modelli” culturali ed esistenziali che dovevano essere incarnati, in quella “liquida” sono le relazioni e i gruppi a dare sicurezza e a fondare le ragioni dell’impegno e della testimonianza. I valori ci sono ancora, e sempre più vanno condivisi con culture diverse dalla nostra tradizione, ma i luoghi e le modalità della loro elaborazione sono cambiati, e così, paradossalmente, quando viene richiesta una forte azione formativa da parte della società, la scuola è in crisi. Non serve sapere meglio come si valuta, ma stabilire cosa e per che cosa si valuta. L’abbandono scolastico dipende quasi sempre dalla motivazione e non è legato solo all’insuccesso o alle condizioni economiche, almeno per ora; la scuola non può limitarsi a registrare, deve intervenire, andando oltre il rapporto con i giovani, e mettendosi in contatto diretto con la società.
La gioventù passa dall’identificazione con la società adulta alla sperimentazione; ciò ha aumentato l’incertezza, soprattutto per quello che riguarda l’inserimento nel mondo del lavoro che rimane un problema molto sentito dai giovani. Non si tratta di realizzare il successo scolastico in senso stretto, ma di fornire supporti alle opportunità lavorative e ai meccanismi di riconoscimento sociale.
Oggi si pone l’accento più sull’esperienza che sul progetto; la perdita di memoria è un vuoto di ideali e di aspirazioni; la cultura del mutamento assomiglia sempre più al telecomando, e ciò genera disagio nei giovani, mentre nella prassi educativa sembra che non si riesca a vedere aldilà del proprio ambito disciplinare, per offrire una finalizzazione efficace alle proprie settoriali competenze. Ciò che è in discussione è la qualità della vita che si conduce nella scuola, ma anche fuori da essa, la consapevolezza che ogni atto didattico ha riflessi diretti su ogni studente nella costruzione della propria identità: si veda l’influenza formativa degli aspetti non formali e informali, come per esempio il significato che hanno assunto gli stage aziendali. Quello che conta infatti è il fare più che il far fare, il risolvere problemi più che applicare principi, l’agire come persone in situazione più che insistere su apprendimenti astratti.
L’educazione civica era stata messa accanto alla storia, pensando che certe conquiste di civiltà fossero il risultato di un percorso effettuato da popoli e nazioni, oggi questa materia non è all’apice degli indici di gradimento, anche perché, nell’ottica dell’esperienza, la memoria si fa fatica a conservarla oltre ai testimoni e la scuola stessa ha difficoltà a elaborarla, conservarla ed esprimerla, ma anche perché la cittadinanza si tende a fondarla su altri valori, come per esempio l’ambiente, che in passato era solo uno strumento di conoscenza e oggi sembra una delle possibili garanzie per il futuro.
Gli strumenti di partecipazione in questi anni sono stati tanti: da quelli così detti di base, che fanno riferimento alle ormai desuete assemblee studentesche, a forme di democrazia rappresentativa a cui non corrisponde l’autonomia reale delle scuole; da momenti di gratificante aggregazione del predetto progetto giovani, di cui è rimasto un retaggio nelle consulte e nei forum degli studenti, ai consigli comunali dei ragazzi. Questi ultimi strumenti sono educativi nella misura in cui sono operativi, cioè sia possibile far assumere delle responsabilità e verificare dei risultati, altrimenti risultano un esercizio retorico di democrazia. I giovani devono poter fare sul serio: non servono più spazi per incanalare la protesta o per guardare al funzionamento delle regole democratiche, e, men che meno, per simulare,senza effetti, la democrazia degli adulti. Essi non sono solo minori da tutelare, ma soggetti politici attivi, che acquisiscono anche competenze specifiche oltre alla maturazione del costume socializzante e partecipativo.
Se gli anni settanta furono quelli della partecipazione democratica, che via via sembrò sterile disputa di posizioni, gli anni ottanta orientarono verso il decisionismo efficientista; si passò da un’esigenza di “uscirne insieme” a quella di privilegiare un “uomo solo al comando”. Oggi se guardiamo alle politiche ambientali ci accorgiamo che la competizione produttiva è in rotta di collisione con la limitatezza delle risorse naturali, il che chiama in causa la definizione di priorità nella organizzazione economica e sociale. Cittadinanza e Costituzione sono soprattutto questo, non tanto un conflitto di antropologie o di civiltà, ma un percorso condiviso per uno sviluppo sostenibile. Quale ambiente meglio della scuola dovrebbe elaborare questa sintesi, la sostenibilità, sia per praticarla al proprio interno tra le persone, i saperi, gli apprendimenti, i modelli organizzativi ecc., sia come contributo che un sistema formativo esperto può portare allo sviluppo del proprio territorio. I giovani però credono che sia il potere economico e finanziario a prevalere su quello politico, e ancora si torna allo scarso rilievo dato ai valori etici, non solo ad alcuni, più legati alla persona che non alla società, da cui scaturiscono quelli civili e politici; l’affermarsi di un preoccupante individualismo, lo scarso impegno sociale, l’imponente influenza dei media, non possono farci prendere coscienza delle gravi minacce che incombono tanto sulla libertà, quanto sulla democrazia: l’una e l’altra non sono infatti gratuite, ma, al contrario, richiedono impegno e partecipazione, solidarietà ed efficienza. Qui i giovani, ma anche gli adulti, sono pendolari fra le appartenenze, le esperienze, i consumi, le situazioni, e ciò rende fragili coloro che possono provare tutto senza fermarsi a chiedersi il perché.
In una ricerca su giovani americani troviamo che i tre quarti di coloro che si laureavano nel 2002 avevano posto come primo obiettivo quello di arricchirsi il più presto possibile e appena il 25% era favorevole all’abolizione della pena di morte. Quanto di questa immagine può essere ormai entrata a far parte del mondo globale? Tanto, a leggere le cronache che coinvolgono sempre di più i giovani in comportamenti criminosi. E se un tuo amico si trovasse a essere testimone di un fatto di mafia: cosa dovrebbe fare secondo te? Oltre il 30%, in un’inchiesta svolta in un istituto superiore italiano, opta per un comportamento omertoso: far finta di nulla. Di fronte a un coinvolgimento diretto solo il 31% denuncerebbe il fatto; oltre il 36% risponde: non so. Si potrebbe continuare su altri temi di etica pubblica: l’evasione fiscale, la corruzione ecc.
Ma anche i genitori prediligono il realismo, pongono l’affermazione di sé al primo posto per i loro figli: essere intelligenti, si dice in altre ricerche, è il mezzo più sicuro per far soldi e per ottenere tutto ciò che si desidera. E questo conferma quanto detto in precedenza anche rispetto al narcisismo imperante nell’educazione familiare. Non parliamo poi delle scarsissime o quasi nulle conoscenze specifiche dei giovani sul mondo politico e circa la loro prevalente opzione all’astensionismo, in quanto non hanno fiducia nella politica e nella sua capacità di risolvere i loro problemi. Questo fenomeno si ingrandisce se lo si estende ai giovani europei, di cui una ricerca del 2002 ha messo in evidenza la presa di distanze dalle istituzioni sociali tradizionali: il 50% di loro, infatti, non partecipa ad alcuna vita associativa, con punte più alte nei confronti di partiti e sindacati. La cosa più importante è stare con gli amici, interfacciati dalle nuove tecnologie. L’angoscia che prende tutto il continente è di non trovare lavoro.
Essi attribuiscono alla scuola un ruolo di incoraggiamento alla partecipazione e alla vita attiva, ma un tale comportamento si può ottenere se i governanti prendono l’abitudine di ascoltare prima di decidere. Gli “impegnati”, si rilevava in zona IARD in quegli anni, superano a stento il 3%, mentre i disgustati della politica vanno oltre il 26%. Dati confermati dall’UE, in occasione dell’anno europeo della cittadinanza attraverso l’educazione (2005), da cui risulta difficile avere un riferimento al ruolo dei cittadini in una società nella quale convivono con gli altri. Un’ulteriore conferma viene dall’indagine IEA sull’educazione civica e alla cittadinanza del 2009. Gli americani parlano di twixters, un po’ Peter Pan, che raccolgono i frutti di decenni di benessere e di liberazione sociale, ma non crescono, perché la società non fornisce la struttura morale e finanziaria che permetta di prendere il posto nel mondo degli adulti.
Amici, famiglia, autorealizzazione sono tipici della così detta “socialità ristretta” e ciò produce la dissociazione tra sfera privata e pubblica, tra individuo e collettività. In questo non manca l’attenzione per i valori, ma faticano a tradursi in una riflessa consapevolezza e in un coerente modello di comportamento, rimanendo a livello di istanza emotiva. Indagati i rapporti tra i giovani e la Costituzione da una ricerca promossa recentemente dai Presidenti delle Assemblee Regionali, si rileva che essa è apprezzata, ma in generale poco conosciuta; una carta di cui bisogna andare orgogliosi, ma poco applicata. Ancora una volta si mette in evidenza un atteggiamento superficiale su un così importante strumento per la vita sociale del Paese e la qualità della sua democrazia, ma i cui limitati effetti vengono attribuiti dai giovani stessi al degrado della politica, al permanere delle disuguaglianze, alla scarsa efficienza delle istituzioni. Modifiche costituzionali devono andare nella direzione dell’ampliamento dei diritti riconosciuti, ma nel paese c’è poco senso civico: “le regole ci sono, ma non valgono fino in fondo”.
Quello che sembra stia cambiando in profondità nel loro pensiero riguardo alla politica è che i problemi non sono di destra o di sinistra, ma si dà merito a coloro che si dimostrano capaci di risolverli. La stragrande maggioranza degli intervistati ha letto la Costituzione a scuola o all’università, ma solo il 25% dice di averla letta tutta; una sparuta minoranza è stata stimolata a leggerla dalla famiglia. La sua conoscenza aumenta con il progredire della scolarità, anche se al riguardo non mancano gli autodidatti, per assumere una maggiore consapevolezza partecipativa. Basterebbe questo dato per difendere il ruolo dell’istruzione pubblica, che pone la carta fondamentale al centro della pedagogia nazionale. 9 giovani su 10 ritengono che la Costituzione sia patrimonio di tutti e costituisca una modalità per la ricerca di un’identità collettiva e democratica; sempre meno credibili risultano le contrapposizioni e le spaccature politiche nel Paese. Una normatività intesa come creazione sociale di significati, produttrice di diritto e garanzia dei diritti. La percezione che i valori costituzionali siano rispettati diminuisce col crescere dell’età, con l’entrata cioè nella vita attiva e nel mercato del lavoro. I giovani, come si è detto, tendono a collocarsi al di fuori degli schieramenti politici, ma i loro profili valoriali sono sempre meno definiti, e ciò non esclude che la stessa scelta di defilarsi sia un segnale di difficoltà a definire la propria identità. Questo apre un grosso spazio per la riflessione e le strategie educative, anche a livello intergenerazionale.
Cittadinanza e Costituzione, una quasi disciplina o una super disciplina; un’esperienza multidisciplinare, trasversale al curricolo e alla vita della comunità, scolastica e non. L’apprendimento della cittadinanza, ci ricorda l’indagine IEA, avviene in modo formale e non formale; fa parte del clima, dell’ethos, della vita della classe; fa interagire la scuola e la realtà locale; fa sperimentare il ruolo dei giovani/studenti nell’organizzazione sociale e politica, dei docenti e genitori nella vita della scuola e della comunità. Come in Spagna, si deve trattare di una materia, nel contesto pluridisciplinare, che coinvolge la stessa società locale nella definizione dei percorsi didattici. Dall’educazione alla “convivenza civile”, con i saperi della legalità, alle “indicazioni” circa la partecipazione. È quest’ultima caratteristica che regola la cittadinanza in un organismo vivo come la scuola. L’esercizio democratico è un diritto-dovere che va appreso vivendolo giorno per giorno, fin dalla più giovane età.
Si tratta di riflettere, individualmente e collettivamente, sui contenuti, accedendo a casi concreti e sperimentando in prima persona le implicazioni concettuali connesse ai diversi argomenti che vengono trattati, in un continuo e costante collegamento tra quanto si discute in classe e quanto vissuto quotidianamente nella propria esperienza di vita. Questo è l’orizzonte in cui si deve operare, per esempio, nei rapporti tra etnie e culture diverse e nel patto di corresponsabilità tra scuola e famiglia.
I giovani del sessantotto protestavano contro l’autorità, l’imposizione da parte degli adulti, oggi protestano contro l’abbandono, l’assenza di futuro, nei rapporti con gli adulti. Non serve, a questo proposito, mettere in campo provvedimenti punitivi, ma occorrono azioni di riconoscimento, di sostegno, di indirizzo. La Regione Emilia Romagna ha varato recentemente una legge in materia di “politiche per le giovani generazioni”, che le riconosce come soggetti di diritti; il loro benessere e quello delle loro famiglie è condizione per lo sviluppo sociale, culturale ed economico della società regionale. La Regione favorisce i progetti di vita, promuove la cittadinanza attiva, per affrontare i problemi e i cambiamenti in un’ottica comunitaria. Le politiche per i giovani, si dice ancora, prevedono la loro partecipazione diretta, per condividere le priorità, le strategie, la verifica dei risultati e la ottimizzazione degli interventi.
Il loro coinvolgimento nei processi decisionali potrà avvenire anche attraverso modalità online: è la e-democracy la nuova frontiera?
Gian Carlo Sacchi