Che scuola ci raccontano i social?
Per chi come me, passata una vita a scuola, se ne va in pensione, bastano solo cinque anni per sentirsi inadeguato a parlarne. E’ ciò che mi capita tutte le volte che qualcuno mi chiede o mi forza ad esprimere una opinione sulla realtà scolastica odierna e sulle sue prospettive.
Lo faccio qui con l’incertezza di chi sa di avere una visione molto parziale della situazione. Scelgo allora un punto di vista empirico: la percezione che ho in questo tempo della scuola vista con gli occhiali dei social su internet.
È noto che Facebook è concepito in modo tale da creare intorno a chi lo frequenta un mondo di notizie, reazioni, immagini, video e stupidaggini ritagliato sulle scelte proprie e dei propri amici. È quanto di meno oggettivo ci possa essere per osservare il mondo; si ottiene infatti un mondo adattato ai propri interessi e ai propri gusti. Tuttavia, se il giro delle amicizie è quello scolastico, costituito dalle persone frequentate e conosciute quando si lavorava nella scuola, il contesto osservato è dunque soprattutto scolastico. Ebbene cosa vedo in questa sfera di cristallo dei social?
Innanzitutto, vedo sofferenza e stanchezza, una lacerazione talvolta sottile, talvolta vistosa di un tessuto di relazioni, regole, ideali, obiettivi che sembra sempre più inadeguato a costituire la vela per una barca che beccheggia durante una bonaccia ma teme l’arrivo di una rovinosa tempesta. Vedo che la barca sembra aver perso la rotta, che l’armatore non ha detto con chiarezza verso quale porto dirigersi. Ogni tanto si arricchisce e si ravvivano le dotazioni, si potenzia l’equipaggio ma l’ordine è di galleggiare, resistere che poi si vedrà.
Vedo che l’equipaggio si sta sgretolando, c’è poca coesione, le fazioni non si parlano, ci sono invidie e gelosie ma non è affatto strano: è lo stesso clima che si respira tra coloro che vivono a terra nel porto e che hanno armato questa nave piena di giovani da formare alla vita. Vedo che questa barca vecchiotta e variamente rappezzata ha resistito a molte tempeste, bombardata da destra e da sinistra non è affondata per la resilienza di una non piccola parte dell’equipaggio ostinato e caparbio che crede al proprio lavoro. E sempre dalle nutrite discussioni sui social, un magma che ribolle ed offre contenuti e riflessioni che una rivista che parla di scuola non può e non deve sottovalutare, colgo lo spunto per sviluppare un’altra riflessione.
Siamo vittime di un riformismo esausto.
Mi spiego, il riformismo scolastico non appare più come un valore, tutte le forze che si sono alternate al potere in questo ultimo trentennio hanno fatto nuove riforme ad ogni legislatura, spesso per bloccare e congelare la riforma della parte politica che aveva governato poco prima. Il sistema maggioritario dell’alternanza che ha caratterizzato questo arco temporale non ha capito che le riforme della scuola dovrebbero essere come quelle costituzionali: dovrebbero cioè avere un largo consenso e non essere alla mercé dei governi che si avvicendano elezione dopo elezione.
L’ultima riforma – che pur raccoglieva in sé una gran quantità di buone idee e di richieste provenienti dalla scuola – alla prova dei fatti sta mostrando i suoi limiti: appare evidente la debolezza della visione prospettica e la riforma si rivela fallimentare in quegli aspetti che richiedono risorse concrete e capacità organizzative da parte delle burocrazie che devono attuarla.
Spesso l’innovazione ha cancellato le identità consolidate, la cultura condivisa. Il riformismo giovanilista, il culto del nuovo e del cambiamento, hanno rottamato l’esperienza e la storia. Si è persino arrivati a pensare se non ad asserire – lo si legge in molti blog – che il potenziamento non abbia nulla a che fare con l’organico funzionale, taluni autori e alcuni insegnamenti scomparsi, come se non fossero mai esistiti Testimonianze e scambi tra docenti nella rete, dove le barriere sono estremamente labili e ci si sente meno inibiti, testimoniano che nelle scuole, nel chiuso del proprio corso e dei propri criteri didattici, in barba alle raccomandazioni e alle linee guida dei documenti ministeriali, quasi tutto è permesso.
Emblematico è il caso di docenti che rimangono ostinatamente fedeli a vecchi programmi che non sono più in vigore. Quasi un teatrino dell’assurdo: in rete sembrano tutti esperti di scuola e ne parlano con presunta (e presuntuosa) competenza laddove, invece, troppo spesso, l’autorevolezza di chi conosce veramente dal di dentro la scuola non è affatto riconosciuta.
Un modello sulla falsa riga dei talk show televisivi in cui si può parlare liberamente di tutto senza tema di essere smentiti. Agli occhi di un anziano diventato giocoforza nostalgico, la rete è essa stessa prova del fallimento della scuola: il linguaggio, le considerazioni, le abitudini delle giovani generazioni sembrano testimoniare una regressione, un imbarbarimento (che i mass media si premurano di denunciare amplificandolo).
La rete – contigua sia al mondo giovanile sia a molte forze politiche e sociali che la usano per diffondersi in modo virale – appare sempre più come il luogo dei perditempo che scrivono in un italiano tale da farci dubitare che la scuola la abbiano anche solo frequentata. Congiuntivi mal usati, riferimenti storici e geografici improbabili sono spesso percepiti – non solo da me, temo – come il fallimento di una sistema scolastico costoso e pletorico.
E proprio mentre scrivo questo pezzo, circola sulla rete in modo virale la lettera di un genitore che si gloria di aver consentito al proprio figlio di non fare i compiti (sostituiti dall’apprendimento della vita vera) forte di una concezione pedagogica derivante dal modello svedese che – a suo dire – prescinderebbe da una forma di valutazione formalizzata in luogo di una sorta di felice socializzazione. Permettetemi solo di dire che la concezione del sistema scolastico svedese di questa persona è un’immagine falsata, distorta e sbagliata, presumibilmente frutto di uno studio sommario ed approssimativo in quanto si tratta di un sistema tutt’altro che destrutturato o lieve. Ma sto divagando, quello che mi preme dire è che si sta diffondendo, ormai da tempo, l’idea che di questa nostra scuola così come si è consolidata nel tempo si possa fare a meno, che si possano ridurre le spese del personale riducendo il tempo scuola, che si possa tornare ad un’educazione centrata sulla famiglia e sui propri interessi particolari tanto la competenza esperta e sofistica non serve in un mondo economico in regressione.
Un’assurdità, soprattutto alla luce delle indagini OCSE PISA
, che ho avuto al fortuna di seguire dalla nascita, e che, già dai primissimi rilevamenti (OCSE PISA 2000 Programme for International Student Assessment, 2000), mostrarono che i sistemi scolastici dell’occidente più sviluppato sfiguravano di fronte a quelli di economie meno ricche e più periferiche con uno spostamento del baricentro verso l’Asia.
In Italia il dato non fu preso nella dovuta considerazione mentre altri paesi europei li presero sul serio e si dettero da fare. Nei sedici anni successivi, gli scenari politici ed economici sembrano aver dato ragione all’ipotesi dell’OCSE: gli indicatori della produttività del sistema scolastico e della qualità delle competenze nei quindicenni in lingua materna, matematica e scienze potrebbero essere infatti in grado si spiegare i diversi tassi di sviluppo in società peraltro organizzate in modo molto diverso.
E benché queste conclusioni sollevino cori di voci contrastanti, talvolta anche supportate da motivazioni intelligenti, resta il fatto che queste considerazioni devono essere prese in considerazione da chi si occupa veramente di scuola o ha solo la velleità di parlarne in qualche sperduto blog.
Ma è soprattutto per tutti coloro che nella scuola hanno scelto di lavorare che il legame tra scuola e società, tra scuola e produzione, tra scuola e ricchezza, tra scuola e benessere devono essere temi centrali. La nave beccheggia dunque, ma resiste.
Occorre, a mio avviso, diffondere la consapevolezza che il sistema scolastico ha bisogno di uno scossone perché lo snodo in cui ci troviamo potrebbe costituire una pericolosa emergenza educativa che chiederà alla scuola di aprirsi verso richieste nuove e sfide inattese.
Raimondo Bolletta