«Nelle scarpe degli altri»: a scuola di empatia
Il modello dell’Empaty Museum di Londra, che ha aperto i battenti qualche anno fa, ha catalizzato l’attenzione internazionale e invita a guardare il mondo con gli occhi degli altri: «Prima di giudicare qualcuno prova a camminare un miglio con le sue scarpe». Questo museo è una sorta di empathy shoe shop, uno spazio dove letteralmente provare a camminare almeno per un miglio con i mocassini di un altro: oltre alle scarpe, un auricolare per ascoltare la storia di vita del proprietario di quelle scarpe, un migrante, un rifugiato, un senzatetto o una vittima di violenza. Centinaia di storie. L’Empaty Museum ha conquistato una sua popolarità negli ultimi anni, perché le persone sono alla ricerca di modi nuovi e creativi per costruire tolleranza e rispetto, superando le divisioni sociali dei giorni nostri[1].
L’empatia come competenza
Il progetto si ispira al pensiero dello scrittore e filosofo australiano Roman Krnaric, che afferma che soltanto pochi usano il proprio potenziale empatico, dote che può migliorare non solo la vita dei singoli, ma anche l’intera società[2]. L’empatia, infatti, non è soltanto un dono naturale, una capacità insita nel DNA umano, come attestano le ricerche nel campo delle neuroscienze sociali, ma una competenza da allenare e apprendere.
Esperti e studiosi di diversa formazione — filosofi, psicoanalisti, storici dell’arte —, sono sempre più convinti della necessità di diffondere la cultura dell’empatia, della tolleranza e del rispetto, contro un individualismo crescente e fuorviante. Un messaggio concreto di incoraggiamento dell’etica del dialogo, dell’incontro e dell’inclusione, in una società globale affetta da un deficit di empatia e un conseguente bisogno che ciascuno si alleni a mettersi nei panni e a guardare il mondo con gli occhi degli altri [3].
La convinzione che desidero rendere esplicita in queste righe è che non basta parlare di benessere e di empatia, ma che bisogna creare occasioni laboratoriali dove allenare e far crescere a partire dai ragazzi più piccoli l’attenzione e il rispetto per gli altri, ascoltare i sentimenti altrui, comprenderli e condividerli, senza pregiudizi. Ritenere di non avere pregiudizi è infatti il più comune dei pregiudizi, come afferma lo scrittore e filosofo colombiano Nicolas Gomez Davila.
Per dirla con le parole del Manifesto di Edgar Morin per cambiare l’educazione, «la scuola deve insegnare a vivere», ovvero deve fornire agli alunni mezzi e strumenti per affrontare l’incertezza, l’illusione, l’errore e la parzialità del proprio punto di vista, per conoscere e favorire autonomia e libertà della mente e per riconoscere le qualità proprie e degli altri. La comunicazione deve essere orientata effettivamente alla comprensione reciproca, all’etica del dialogo, con attenzione alla relazione tra le diverse componenti, alunni e insegnanti. Detto in altri termini, un orientamento alla benevolenza, da non equivocare come atteggiamento accomodante, ma da assumere come impegno collettivo a sfuggire dal circolo vizioso dell’umiliazione, in modo da lasciare sempre la porta aperta all’incoraggiamento e alla possibilità di esprimere se stessi e il proprio talento, superando anche gli inevitabili momenti di crisi[4].
L’esperienza danese
La pedagogia dell’empatia è un must della scuola danese, dove viene insegnata dal 1993 per un’ora alla settimana a bambini e ragazzi dai 6 ai 16 anni: la klassens tid è l’ora di classe, espressione che si può tradurre come ‘ora di empatia’, una materia come la matematica o la geografia, ma senza un programma stabilito. Uno spazio in cui ai giovani studenti è proposto di parlare dei propri problemi individuali e di gruppo, incoraggiandoli a esprimere emozioni e sentimenti, favorendo l’ascolto reciproco e cercando di far emergere un comune senso di solidarietà.Durante queste lezioni guidate da un insegnante coach si ricerca una particolare atmosfera, chiamata hygge, che si qualifica e distingue per alcune caratteristiche di benessere collettivo e che si può sperimentare quando si è in pace con se stessi e con gli altri, disponibili a guardarsi negli occhi e a comprendersi, anche nella propria fragilità.
Esperienze analoghe sono sperimentate e documentate da tempo anche nella scuola italiana, dalle ore di educazione all’affettività a cura di insegnanti affiancati da psicopedagogisti, alle sessioni di coaching, a quelle di filosofia per e coi bambini,[5] all’agorà del progetto Edumana[6], al progetto Mediando per la mediazione dei conflitti[7], ai circle time di Parole?stili[8], per enumerarne alcune.
La creazione di un ambiente accogliente e inclusivo dove tutti si sentano a proprio agio è quanto mai cruciale in questo momento che stiamo vivendo, segnato nel profondo dalla pandemia e in movimento verso terre incognite: solo così i bambini e i ragazzi possono sentirsi liberi di esprimersi e anche liberi di pensare, di dare un nome alle proprie emozioni e provare a declinare ipotesi di futuro prossimo.
L’empatia come obiettivo di una vera comunità educativa
Una buona road map per ogni comunità educativa ha il dovere oggi di non trascurare il ruolo di sentinella sociale, palestra di apprendistato sociale e prosocialità, e di insegnare la condizione umana, assicurando e valorizzando la diversità. La scuola non deve rinunciare al suo ruolo di bussola e ancora etica e deve attivarsi con l’obiettivo di sviluppare l’etica della solidarietà e della comprensione in funzione di un vero umanesimo[9].
Empatia, arte e bellezza come cura: anche il World Happiness Report, rapporto annuale sulla felicità commissionato dalle Nazioni Unite e pubblicato dall’Earth Institute della Columbia University conferma che lo stile di vita e di relazione è determinante per il benessere dell’umanità[10]. Sviluppare l’empatia significa in primo luogo predisporsi a lavorare su se stessi. In quanto capirsi e accettarsi è il primo passo per capire meglio gli altri. E come per ogni cosa, prima si inizia, più facile sarà farla propria, conquistando autostima, curiosità e interesse profondo per chi ci sta vicino, capacità di ascolto e di osservazione, arte della conversazione per la costruzione di relazioni positive, ricorso alla capacità di comprensione per guidare le proprie azioni, superamento di ogni pregiudizio, parlando delle cose che contano davvero nella vita, come l’amore, la pace, la serenità, la famiglia, la morte, insomma i valori e i temi esistenziali più profondi. Alla ricerca dell’arte di vivere, sfuggendo sin da piccoli all’impasse relazionale, nella consapevolezza che l’identità si costruisce soltanto nella relazione con gli altri[11].
In estrema sintesi non è azzardato affermare che l’empatia permette una visione sociale capace di cambiare la prospettiva della visione del mondo e dei comportamenti delle persone. Il Fondo Tullio De Mauro ha intrapreso un ciclo di incontri dedicato al potere delle parole, con l’obiettivo di costruire un dizionario che si prende cura delle parole per una significativa ri-definizione. Allo scrittore Nicola Brunialti è stata affidata la parola empatia: si può ascoltare in rete il suo intervento: https://www.youtube.com/watch?v=XjHUqcpg3kE
————————
[1] http://empathylibrary.com/
[2] R. KRNARIC, Empatia. Perché è importante e come metterla in pratica, Armando Editore, 2019
[3] «The biggest deficit that we have in our society and in the world right now is an empathy deficit. We are in great need of people being able to stand in somebody else’s shoes and see the world through their eyes». Barak Obama
[4] E. MORIN, Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione,Raffaello Cortina, 2015
[5] https://www.philosophyforchildren.org/; http://www.coibambini.com/index.html
[6] https://www.edumana.it/
[7] https://www.cooptuttinsieme.it/progetti/mediando.html
[8] https://paroleostili.it/
[9] E.MORIN, Sette lezioni sul pensiero globale, Raffaello Cortina, 2016
[10] https://worldhappiness.report/ed/2020/
[11] M. AUGE’, Cuori allo schermo. Vincere la solitudine dell’uomo digitale, Piemme, 2018
Rita Bramante Dirigente scolastico dell’istituto comprensivo Cavalieri di Via Anco Marzio a Milano