Integrazione a scuola – di Giulia Montefiore
In Italia quando parliamo di integrazione scolastica ci riferiamo soprattutto a quella degli alunni stranieri e ci focalizziamo sull’integrazione culturale e sociale. Negli Stati Uniti, invece, il centro di tutto è l’apprendimento della lingua e quindi l’integrazione linguistica.
Lì non si parla di alunni stranieri ma di English learners, ovvero di alunni la cui lingua madre sia altra dall’inglese – idioma che devono invece apprendere e che, a volte, non hanno mai parlato prima di cominciare la scuola. Gli English learners non vengono classificati per nazionalità e possono essere benissimo alunni con cittadinanza statunitense le cui famiglie, americane anche da generazioni, parlino a casa una lingua diversa dall’inglese.
Negli Stati Uniti gli English learners, equivalenti degli L2 italiani, costituiscono all’incirca il 9,8% di tutti gli studenti. Di questi, solamente il 65% si diploma, a fronte di una media nazionale dell’83%. Nonostante, per avere una visione più chiara del fenomeno dovremmo utilizzare ulteriori variabili (come il livello socio-economico della famiglia e il livello di istruzione dei genitori, che potrebbero indicare un fenomeno di maggiore o minore entità rispetto a quello descritto), questi dati, per quanto generali, segnalano la presenza di una criticità.
Considerato non solo che l’educazione negli USA è prerogativa degli Stati e non del governo federale – ma anche e soprattutto che ogni territorio e singola scuola gode di grande, se non totale, autonomia in merito alle strategie educative – negli USA non esiste una modalità standard per l’inserimento linguistico degli English learners; per orientarsi ed organizzarsi le scuole spesso fanno parte di network educativi, reti di scuole intra- ed inter-statali accumunate da visioni e scelte didattiche specifiche.
Con la consapevolezza delle differenze di focus tra il sistema educativo italiano e quello statunitense, ma con altrettanta convinzione dell’utilità della conoscenza di modalità altre dalla propria che possono portare a proficue riflessioni e ad interessanti ibridi, presentiamo qui alcune delle esperienze statunitensi che abbiamo potuto osservare direttamente.
All’Academy of the Americas di Detroit, nello Stato del Michigan, si è scelta la via dell’insegnamento bilingue, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria superiore. Qui le materie vengono studiate in due lingue, in inglese e in spagnolo (ovvero la lingua prevalente nel territorio dove si trova la scuola). Il modello, chiamato “90/10”, prevede si cominci con lo studio delle materie scolastiche in spagnolo al 90% e in inglese al 10%, andando progressivamente a riequilibrare le percentuali fino a raggiungere una divisione del 50 e 50. In questo modo gli alunni non vivono uno stacco improvviso rispetto alla lingua parlata in famiglie e sviluppano non solo l’inglese ma prima di tutto la lingua madre, la cui padronanza oggi sappiamo essere fondamentale per un apprendimento di successo di una seconda e più lingue. In più, la lingua madre non viene demonizzata e vista come qualcosa da nascondere ma acquista dignità entrando appieno nell’apprendimento del ragazzo.
Sempre sul bilinguismo, ma in forma molto diversa, si fonda la strategia della Foreign Language Immersion and Cultural Studies School (FLICS), sempre nella città di Detroit. Qui, per due ore ogni giorno, si studiano delle materie in una lingua straniera a scelta tra giapponese, cinese, francese e spagnolo, con insegnanti madrelingua. Alla base della scelta della FLICS, c’è una visione della seconda lingua non solo come risorsa ma anche come strumento d’integrazione che, accompagnando anche qui gli studenti dalla materna alle superiori, li aiuta a comprendere ed apprezzare la diversità culturale e le difficoltà che con questa possono emergere.
La Theodore Roosevelt High School, a Washington D.C., punta invece su un approccio diametralmente opposto. Gli English learners vengono inseriti in quelle che in Italia chiameremmo “classi ponte” e che negli USA prendono il nome di “classi internazionali”. Qui gli alunni che stanno imparando l’inglese apprendono attraverso il cooperative learning, l’apprendimento cooperativo, ovvero affiancandosi a compagni con competenze linguistiche più o meno avanzate delle proprie, in modo da poter essere aiutati o aiutare, imparando a vicenda. L’apprendimento in queste classi è facilitato, il che significa che i programmi sono meno densi di quelli standard. L’obiettivo è che quando i ragazzi alla fine di ogni anno scolastico effettuano il test di lingua siano abbastanza fluenti da poter passare alle classi regolari. Se non lo sono, procedono all’anno successivo nella classe internazionale e ripetono l’esame l’anno successivo. Alla base di questo sistema vi è l’idea che il rapporto tra pari consenta di stringere relazioni positive e che motivi lo studente nell’apprendimento della lingua.
Tuttavia, l’aspetto negativo che abbiamo potuto constatare a domanda diretta, è che i ragazzi difficilmente riescono a passare alle classi regolari e tendono a concludere il corso di studi nelle classi internazionali. È evidente come, perlomeno nel caso della scuola Roosevelt, questa modalità non riesca a raggiungere gli obiettivi che si prefissa, ovvero a realizzare l’integrazione linguistica dei ragazzi. Inoltre, la lingua madre non viene coltivata e si tende in questo senso ad una assimilazione linguistica. Infine, la presenza di alunni madrelingua inglese, che spesso parlano solamente una lingua, e quella di studenti con lingue madri differenti, non è assolutamente sfruttata per generare un’inclusione a livello sociale in una comunità interculturale e per incentivare una pari dignità linguistica, che è invece ciò a cui le due scuole sopra analizzate puntano attraverso il bilinguismo.
Infine, riportiamo l’esperienza delle scuole del Granite District di Salt Lake City, nello Utah, un distretto scolastico che fa parte del National Association for Multicultural Education (NAME), un network che pone l’attenzione sulle relazioni interculturali e sull’importanza per gli insegnanti di comprendere le culture di provenienza dei propri alunni. Nelle scuole del Granite District questo approccio si traduce, oltre che nella sensibilizzazione e formazione degli insegnanti rispetto a questi temi tramite dei corsi, in un periodo di dieci-venti giorni al momento dell’arrivo degli alunni, parliamo qui di alunni stranieri, a scuola in cui i ragazzi frequentano un corso intensivo che ha come obiettivi quelli di porre le basi della lingua inglese e di fornire ai ragazzi strumenti di lettura e navigazione del nuovo contesto sociale nel quale si trovano. I ragazzi sono poi durante il proprio percorso scolastico seguiti da mediatori culturali che instaurano un rapporto anche con le famiglie.
Queste sono solamente alcune delle centinaia di modalità tramite cui le scuole statunitensi si approcciano all’integrazione degli alunni, ricordiamo, non necessariamente stranieri ma soprattutto di madrelingua altra rispetto all’inglese. È evidente come il focus sia soprattutto sull’aspetto linguistico, eppure in alcuni di questi esempi appare chiaro come l’integrazione nella comunità di arrivo e lo sviluppo di rapporti positivi sulla base della multiculturalità siano tematiche fondamentali che hanno ispirato lo sviluppo e l’adozione di soluzioni pedagogiche specifiche.
Giulia Montefiore