I Prin e la lingua della ricerca fra italiano e inglese – di Giuseppe Cappello
Già nel febbraio scorso la Professoressa Vittoria Gallina aveva sollevato in maniera molto analitica, proprio su Education 2.0, il problema dell’interazione fra la lingua inglese e quella italiana nel settore della ricerca e in generale della formazione così come nelle disposizioni e nelle vicissitudini che tale problema ha incontrato Oltretevere al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Nell’ultimo scorcio di aprile, la questione, evidentemente di primaria importanza, ha trovato un suo ulteriore sviluppo sulle pagine de ‘La Repubblica’, in ordine ai cosiddetti ‘Prin’ ovvero i “Progetti di Ricerca di rilevante Interesse Nazionale”.
Il Professor Asor Rosa ha scritto, nel segno della critica, su “La repubblica” di sabato 28 aprile in merito alla formulazione dei Prin. Più nello specifico, la sua critica si è rivolta all’articolo 4 del bando dove, da questo anno, il Miur richiede che la domanda per il finanziamento di qualsiasi progetto universitario debba essere formalizzata in inglese. Indirettamente le Professoresse Elena Cattaneo e Roberta D’Alessandro hanno risposto, sullo stesso quotidiano del 29 aprile, al Professor Asor Rosa, sostenendo che l’idea di scienza presuppone quella di una comunità globale, all’interno della quale certamente è inoppugnabile che oggi si scriva e si pensi in inglese. È dunque conseguenza necessaria, sostengono le Professoresse, che si debba comunicare in inglese.
Una disputa a nostro avviso che non è solo linguistica (fatta per gli Accademici della Crusca, che pure sono intervenuti) ma di ordine storico-filosofico. Viene strano pensare che il Professor Asor Rosa, in forza della sua formazione di stampo marxista e quindi hegeliano, abbia sottovalutato la storicità del sapere umano e dello stesso uomo. Probabilmente è prevalso in lui il momento umanistico che, riconducendolo a Cicerone, gli ha fatto pensare alle Alpi come al confine naturale («insuperabilis finis») contro l’invasione dei barbari.
Le Professoresse, dal loro canto, hanno sostenuto il diritto almeno a comunicare in inglese. Che oggi, si può a buon ragione argomentare, è la lingua dei dotti, come il latino lo era nell’Europa di Cartesio e di Spinoza (nonché dell’Anglo Newton che in latino «tanta ala vi stese» nell’opera fondamentale della Rivoluzione scientifica). Si potrebbe obiettare loro, al contempo con lo stesso storicismo e con la filosofia del linguaggio di Wittgenstein, che già la comunicazione tesse, nel linguaggio, i limiti entro cui si dispiega la verità stessa del contenuto (la sua prospettiva concettuale). E di non essere state quindi conseguenti. Perché il problema di fondo sollevato dalla disputa fra loro e Asor Rosa (che ne è certamente consapevole e non ha argomentato a caso) è un problema di civiltà.
Qual è il l’orizzonte culturale entro cui deve essere pensato il mondo e lo stesso uomo, quello della scienza e della tecnica con il loro linguaggio al di là delle Alpi o quello delle Humanae Litterae con il loro linguaggio al di qua? Un interrogativo che ne sottintende uno ancora più lacerante. Le scienze e la tecnica prospettano solo un futuro alienante per l’umanità o piuttosto il suo sviluppo?
Una contraddizione filosofica che probabilmente continuerà ad essere tale fino al momento in cui un «individuo cosmico storico» (per dirla nel linguaggio di Hegel) non scriverà, in una lingua mediterranea (ma forse anche delle grandi sapienze orientali che con l’inglese intrattengono lo stesso processo di osmosi della cultura latina e greca), il De Vulgari Eloquentia del terzo millennio; lo stesso che sappia poi scrivere, in questo volgare del terzo millennio che è l’inglese, anche la Commedia del nuovo mondo.
Per adesso, al di qua di penne cosmico storiche, una più semplice consapevolezza critica ci può almeno aiutare a pensare, per dirla in parafrasi filosofica, che certamente le Humanae Litterae senza il riferimento allo sviluppo delle scienze e della stessa tecnologia sono vuote e altresì che le scienze senza il riferimento alle Humanae Litterae sono cieche.
Giuseppe Capello