Un intellettuale al servizio dello Stato. Rimedi e proposte per salvare la res publica
“Benché … i miei libri abbiano stimolato parecchi non solo a leggerli ma anche a scrivere, tuttavia temo talora che ad alcuni uomini dabbene il nome di filosofia sia odioso e si meraviglino che io dedichi ad essa tanta applicazione e tanto tempo (…) Ah, se fosse rimasta in piedi la Repubblica nello Stato in cui aveva incominciato ad essere e non si fosse imbattuta in uomini desiderosi non tanto di mutare la situazione quanto di sovvertirla! In primo luogo mi sarei dedicato più all’azione… che non allo scrivere, e poi avrei affidato agli scritti stessi non queste osservazioni, ma le nostre azioni” (De off. II).
Di chi stiamo parlando? Semplicemente di quel grandissimo uomo cui dobbiamo dire, ancora oggi, grazie per l’attività filosofica cui, quasi scusandosi con i suoi concittadini, si è tanto assiduamente impegnato, tentando di giovare ancora ai suoi contemporanei, essendogli preclusa ogni altra forma d’agire concreto: Cicerone. È lui che, convinto di come per essere boni homines bisognasse essere anche dicendi periti, esperti dell’arte del parlare, profondi conoscitori della retorica e delle sue tecniche, ed altresì certo di come quest’ultima non dovesse mai essere scissa dalla filosofia, perché unica disciplina capace di educare gli animi alle virtù più lodevoli, di giovare spirito e corpo, accantonata ogni intolleranza e pregiudizio, farà conoscere la filosofia greca a Roma. Un merito, il suo, di importanza colossale, se si considera come proprio la filosofia fosse ritenuta, a quel tempo, nell’Urbe non solo inutile, ma anche pericolosissima e dannosa: come i sofisti, con i loro dissologoi, “discorsi doppi”, si stavano mostrando capaci di sostenere e confutare in maniera ugualmente convincente medesime tesi, così ugualmente qualunque valore da tempo codificato si sarebbe potuto ribaltare con la semplice forza argomentativa, mos maiorum compreso.
I latini diffidavano della filosofia, ma ugualmente non potevano fare a meno di esserne attratti: Cicerone risolverà il “dissidio esistenziale” dei romani, mostrando come filosofia e mos maiorum siano perfettamente compatibili.
Il costume degli antichi impone a ciascuno di impegnarsi attivamente nella vita politica, e Cicerone di questo è ben conscio: “Coloro i quali possiedono giovamenti per dote naturale nelle occupazioni pubbliche, lasciata ogni incertezza devono guardare alla magistratura e amministrare lo Stato” (De off. I). Ebbene, chi ha detto che non sia anch’essa, la filosofia, da ritenere un negotium, un impegno attivo e concreto? Quella filosofica non è assolutamente pura attività contemplativa, è anzi l’unica disciplina capace di mostrare a ciascuno i principi fondanti del vivere civile e della vita politica, l’unica capace di far acquisire al singolo la saggezza necessaria ad affrontare e superare ogni prova della vita: “Che cosa c’è infatti di più desiderabile della saggezza, che cosa di più nobile e di più adatto all’uomo, che cosa di più degno di lui? Dunque, coloro che la ricercano sono chiamati filosofi e la filosofia altro non è, se tu vuoi attenerti al significato etimologico, che amore della sapienza; e la sapienza è la scienza del divino e dell’umano e dei nessi casuali che li regolano”. “E se si ricerca il diletto dell’animo e la tranquillità dagli affanni – continua il nostro autore – se si ricerca la norma della coerenza e della virtù è questa l’arte filosofica per mezzo della quale poterli perseguire” (De off.II).
Sono proprio coerenza e virtù che sembrano essere svanite dalla società a lui contemporanea, fatta di costumi e valori irrimediabilmente corrotti: il buon tempo dell’antica res publica è, ormai, svanito. Roma si sta avviando verso un lento, rovinoso, declino in primis morale, un declino già iniziato anni addietro, come ricorderà Sallustio facendo risalire la causa dei mali che affliggono l’Urbe al tempo delle Guerre Puniche, e in particolar modo alla distruzione di Cartagine: è in seguito ad essa, infatti, che ricchezze immani giungono a Roma e l’accresciuta potenza e prosperità porta alla diffusione di ambitio e avaritia a spese dei boni mores degli avi. Così Silla aveva governato da dittatore la sua “repubblica fantoccio” mantenendo formalmente ogni istituzione statale ma mandando di fatto a morte oppositori di qualsivoglia rango, da senatori a cavalieri, servendosi di quel deplorevole strumento che sono le tabulae proscriptiones, le liste di proscrizione; così le guerre civili continuavano a contrapporre optimates e populares; così un primo triumvirato prima, un secondo poi, saranno stretti in quegli anni per mero tornaconto personale dei singoli triumviri, perdendo del tutto di vista il bene pubblico, a danno dello Stato, delle sue istituzioni, dei cittadini, e condurranno alla dittatura di Cesare prima, e a quella dissimulata in forma di principato, con Ottaviano, poi.
Cicerone stesso cade vittima di questo sistema “malato”: lui, fautore degli optimates, dopo essersi dedicato con tutte le proprie forze al bene dello Stato, aver mostrato il massimo della serietà e correttezza in ogni incarico affidatogli, sarà senza troppi scrupoli liquidato e allontanato dalla scena politica: la riconoscenza che gli sarà data per aver sventato la congiura di Lucio Sergio Catilina sarà un esilio di sedici, lunghissimi, mesi in Grecia, con il pretesto di aver mandato a morte i capi della congiura con un processo sommario; sarà richiamato in patria dai primi triumviri, Cesare, Pompeo e Crasso, con il solo scopo di intercedere per loro presso il Senato; sotto Cesare sarà costretto, poi, a ritirarsi a vita privata; crederà infine fermamente nel giovane Ottaviano, ma finirà nuovamente per esserne disilluso e per essere, anche da lui, strumentalizzato.
Cicerone si ritrova dunque immerso in una realtà in cui illegalità e corruzione regnano sovrane: non può tollerare che quella res publica per cui ha tanto combattuto venga così indegnamente calpestata da ignobili uomini politici… Come salvarla? Bisogna educare nuovamente gli animi alla sapienza poiché, solo sapendo, ognuno potrà raggiungere quella consapevolezza necessaria a risollevare le sorti della società: è questo il compito della filosofia, è questo lo scopo che si prefigge il nostro autore.
“Quelli che hanno intenzione di governare lo Stato tengano a mente due insegnamenti di Platone: il primo, secondo cui custodiscano l’interesse dei cittadini, così da riferire qualunque cosa facciano, a quello, dimentichi dei loro vantaggi; l’altro, che si curino dello Stato nel suo complesso… quelli che badano a una parte dei cittadini, ne lasciano una parte, causano nelle città la malattia più grave, ribellione e discordia: da ciò si verifica che alcuni sembrino sostenitori del popolo, altri dell’aristocrazia, pochi di tutti quanti”. Al contrario – continua Cicerone, con intenti di critica nemmeno troppo velata nei confronti dei tanti uomini politici incompetenti alternatisi in quegli anni al potere – “un cittadino autorevole e forte e degno di essere princeps si donerà totalmente allo Stato e non cercherà ricchezze o potere e lo custodirà così da proteggere tutti…non susciterà né odio né rancore contro nessuno con false accuse e si atterrà così totalmente alla giustizia e all’onestà” (De off. II).
Diceva Platone nella sua visione utopica: “Felice la nazione i cui filosofi sono re e i cui re sono filosofi” (La Repubblica). Cicerone dirà: “coloro che governano lo Stato come fanno i filosofi, non so se ancor più, devono mostrare sia magnanimità sia disprezzo dei vizi umani e tranquilla serenità dell’animo”. Tali cose infatti, e Cicerone da pragmatico qual è ne è ben conscio, di certo “risultano più semplici ai filosofi” poiché, rispetto agli uomini politici, “hanno bisogno di molte meno cose e poiché hanno sia una maggiore grandezza d’animo di cui servirsi sia maggior tempo libero dagli affanni”. “Perciò per un motivo fondato – conclude il nostro autore – un impegno più intenso si deve manifestare in coloro che amministrano lo Stato rispetto a quanti vivono appartati”(De off. I). Se l’uomo politico, in quanto tale, non può limitarsi a vivere appartato come un filosofo, deve tuttavia “valersi di una diligente preparazione”, deve apprendere i principi della filosofia, esserne padrone e servirsene per temperare le eccessive passioni che potrebbero sorgere nel proprio animo e governare, così, al meglio lo Stato, per il bene della collettività. Se la filosofia assume un valore imprescindibile per indirizzare lo statista verso un buon governo, d’altra parte anche “l’ordinamento dello Stato ha grande importanza”. Riporta Cicerone, riguardo agli Spartani: “Questa fu gente forte finché furono in vigore le leggi di Licurgo. Uno di loro, avendogli detto un nemico persiano in un colloquio, vantandosi: «non vedrete il sole per la gran quantità di giavellotti e frecce», disse: «Combatteremo dunque all’ombra»”, e “una spartana, che aveva mandato il figlio in battaglia, avendo sentito dire che era Stato ucciso, disse: «Proprio per questo l’avevo generato, perché fosse tale da non esitare a morire per la patria»” (Tusc. I). E che dire dei Romani? Per bocca di Scipione Emiliano Cicerone va a tessere gli elogi dell’antica costituzione romana e della saggezza politica degli avi: “Quel popolo a quel tempo senza dubbio inesperto comprese tuttavia ciò che sfuggì al sovrano Licurgo, il quale ordinò che non si sarebbe dovuto designare un re ma che si sarebbe dovuto ritenere tale, chiunque egli fosse Stato, purché fosse disceso dalla stirpe di Ercole”. Di contro a Roma, morto Romolo e richiedendo il popolo un nuovo re, il Senato, con prudenza, escogitò “il modo nuovo ed inaudito di istituire l’interregno affinché, finché non fosse Stato dichiarato un re sicuro, il popolo non fosse senza un re e non si permettesse che qualcuno con la sovranità di lunga durata fosse troppo esitante a deporre il potere; così quei nostri uomini di campagna allora si accorsero che occorreva cercare virtù e saggezza degne di un re, non la stirpe”(De Rep. II).
Come l’ordinamento dei Lacedemoni è improntato all’ “arte della guerra”, così l’ordinamento romano è ispirato alla virtù, alla saggezza, alla moderazione, alla parsimonia, tutti valori verso cui la ricerca filosofica indirizza e tutti valori racchiusi in quei boni mores del buon tempo antico. Cicerone esorta anche, dunque, a guardare al passato, a quei personaggi esemplari per la collettività per trovare in essi un modello da imitare nell’agire concreto. Qualche esempio? Siamo nel corso della Prima Guerra Punica e Marco Attilio Regolo, catturato dai Cartaginesi, è inviato a Roma con l’ordine di spingere i romani a stipulare accordi di pace e poi far ritorno a Cartagine. Tornato a Roma, Regolo incita i Romani a proseguire la guerra e “per sua volontà, costretto da alcuna forza fuorché dalla fedeltà che aveva dato al nemico” rientra a Cartagine: sarà lì “tormentato dall’insonnia e dalla fame”, e, nonostante i patimenti subiti, riterrà questa la sua più grande vittoria rispetto ai numerosi trionfi passati, “per la fiducia e la fermezza” mostrati. O ancora Lucrezia, casta moglie di Collatino, che “stuprata con forza dal figlio del re, dopo averne chiamato i cittadini a testimonio” si darà la morte. Le virtù non risiedono, tuttavia, solo nei grandi personaggi della storia: “Un uomo di umili condizioni, Lucio Virginio, uno dei tanti, uccise la figlia vergine piuttosto che farla cadere nella libido di Appio Claudio che a quel tempo deteneva il sommo potere” (De fin. II).
Gli avi rappresentano, dunque, un modello costante cui ognuno deve guardare sempre. Tuttavia potrebbe talora risultare complesso appellarsi a grandi uomini del passato, vivi sì nella memoria collettiva, ma purtroppo non effettivamente vivi e vitali. Per qualunque incertezza, qualunque consiglio o chiarimento, bisogna rivolgersi a chi ha più esperienza di noi, dunque agli anziani. “È dovere del giovane rispettare gli anziani –afferma Cicerone- per appoggiarsi al loro autorevole consiglio; perché l’inesperienza giovanile ha bisogno di essere sorretta e guidata dalla saggezza dei vecchi” (De off. I).
Per salvare la res publica occorre, però, che ciascuno faccia la sua parte e agisca coscienziosamente all’interno dello Stato: “bisogna tener lontani i giovani dai piaceri sensuali, ed esercitarli nel tollerare le fatiche e i travagli dell’animo e del corpo, sì che possano adempiere con vigorosa energia i loro doveri militari e civili”; e a ciò devono contribuire gli studi, la consapevolezza di un patrimonio di tradizioni da preservare, nonché la sapienza degli anziani. Gli anziani, dal canto loro, “dovranno diminuire le fatiche del corpo e aumentare gli esercizi della mente; e dovranno impegnarsi ad aiutare con consigli e saggezza quanto più è possibile gli amici, la gioventù e, soprattutto, la patria”, fuggendo la “lussuria” e l’“intemperanza nei piaceri”; ciascuno si dovrà adoperare affinché quel che è bene per sé lo sia anche per gli altri e questo vada a coincidere con l’honestum.
Ben mostra Cicerone, infatti, come quel che non è onesto non solo sia inutile, ma anche dannoso per la società: “è maggiormente contrario alla natura rubare una qualche cosa ad un altro, o che un uomo aumenti il suo profitto a discapito di un altro uomo, della morte, dell’indigenza, del dolore. Infatti per prima cosa, questo compromette il vivere insieme degli esseri umani e la società”. E, servendosi di una bellissima metafora, il nostro autore continua: “nella stessa maniera in cui risulterebbe inevitabile che il corpo intero si indebolisca e muoia, qualora qualunque organo pensasse di stare bene dopo aver trasferito a sé il vigore dell’organo vicino, così nella stessa maniera risulta inevitabile che il vivere sociale e la comunità degli esseri umani risultino rovesciati qualora chiunque di noi rubi per sé, per proprio profitto, gli averi di un altro” (De off. III).
Una storia, quella di Marco Tullio Cicerone, unica e al contempo commovente, la storia di un uomo che, nonostante tutte le avversità, non ha mai smesso di sperare, fiducioso nei suoi concittadini, di poter salvare la sua Roma dalla deriva. Un grande uomo che, purtroppo, si è trovato a vivere in un mondo in cui utile e honestum non coincidevano, mentre la disonestà regnava sovrana, causando continue rivalità e lotte di potere. Un uomo che, privato delle cariche dello Stato, aveva cercato un appiglio nella filosofia sperando di suscitare l’interesse dei contemporanei abituandoli così a pensare e ragionare con la testa propria, a comprendere le brutture della società e adoperarsi per dei concreti cambiamenti. Che Cicerone sia Stato, però, uomo politico voglioso d’agire di concreto piuttosto che filosofo dedito al solo indottrinamento dei suoi concittadini lo dimostra il fatto che, morto Cesare, abbia tentato un riavvicinamento con il potere, sperando di poter trovare in Ottaviano un alleato nel ridare forza al Senato, agli optimates, come punto di partenza per risanare l’intera res publica. Ma gli esiti non sarebbero stati assolutamente quelli da lui immaginati: Ottaviano si sarebbe servito dell’oratore facendogli scagliare contro il nemico Marco Antonio le veementi Filippiche, per poi allearsi con Antonio stesso e Lepido per fronteggiare i cesaricidi. Il nome di Cicerone sarebbe Stato scritto per primo nella lista di proscrizione dettata da Antonio e approvata, senza esitazione alcuna, da Ottaviano. Raggiunto dai sicari presso la sua villa a Formia l’oratore sarà brutalmente ucciso il 7 dicembre del 43 a.C.: la sua testa, che troppo aveva pensato, e le sue mani, colpevoli di aver scritto le Filippiche, saranno mozzate per volere di Antonio ed esposte nel Foro romano.
Questa è la fine di un uomo come pochi, ma il cui operato non sarebbe terminato con lui: ammirato già dai contemporanei, la sua fama si protrarrà tra i posteri, al punto da giungere sino a noi, uomini del ventunesimo secolo. Un pensiero, quello di Cicerone, così profondo e sorprendentemente attuale che, se non è riuscito, probabilmente per mancanza di maturità dei tempi, a salvare la Roma del I secolo a.C., potrebbe forse aiutare a salvare noi, “latini” di oggi, e la nostra di società dalla deriva, se solo fosse conosciuto più a fondo…
Lidia Maria Giannini