Che fare per la vera integrazione
Nelle aree del Centro-Nord sta crescendo il ruolo del privato sociale nell’apprendimento dell’italiano lingua 2 per gli stranieri immigrati. Alla Rete delle “scuole migranti”di Roma, costituitasi solo un anno fa, partecipano ormai 24 associazioni laiche e religiose (cattoliche e protestanti), fanno riferimento alcuni CTP, la più importante università popolare della città, l’Ufficio Intercultura delle Biblioteche civiche, i Comitati Locali per l’educazione degli adulti del Campidoglio. Tra gli oltre 200 insegnanti volontari, molti sono docenti della scuola pubblica in pensione, ma c’è anche chi ha altre storie professionali, studenti universitari, tirocinanti dei corsi Ditals (didattica italiano per stranieri) dell’Università di Siena per l’insegnamento specialistico nel campo, giovani del servizio civile. Connotati essenziali delle scuole della Rete, la gratuità totale dei corsi e una forte finalizzazione dell’apprendimento della lingua alla fuoruscita dall’esclusione, all’accesso ai servizi essenziali, all’esercizio dei diritti fondamentali. Ma anche la formazione ricorrente dei docenti, un ormai saldo impianto metodologico che in diverse scuole permette un’offerta a ciclo continuo sempre aperta anche a chi non può assicurare una frequenza regolare, relazioni forti con università, esperti, editoria specializzata, luoghi di socializzazione e di interazione culturale della città. Una porzione interessante di quell’Italia civile che opera nei luoghi più difficili e fuori dai riflettori, un impegno che, in altri anni di questo nostro Paese, si sarebbe potuto definire politico.
L’importanza del contributo delle scuole del privato sociale allo sviluppo di una delle strategie decisive per l’integrazione comincia perciò a essere riconosciuta anche a livello istituzionale. La Rete è stata coinvolta, assieme ai CTP, nel progetto avviato di recente dal Ministero dell’Interno per la certificazione delle competenze linguistiche. Troppo pochi, in verità, i 1500 destinatari, modeste le risorse in campo, insufficienti le 70 ore pro capite finanziate (un corso per principianti ne richiede almeno 100-120), ma è finora il solo segnale di una qualche coerenza con il famoso “permesso a punti”, quello che richiede per poter restare in Italia anche una competenza certificata dell’italiano. Silenzio, invece, sul versante della pubblica istruzione. Qui, in evidente controtendenza con le decisioni del “pacchetto sicurezza”, il nuovo regolamento dei CTP promette, in nome di un’educazione degli adulti finalizzata ai titoli di studio, la liquidazione di quei corsi liberi e modulari utilizzati finora anche per l’italiano lingua 2. A rischio, dunque, la frequenza di quei circa 200.000 stranieri che ogni anno li seguono? È probabile, ma sembra non se ne scandalizzi nessuno, e anche la discussione della sinistra politica sulle questioni educative pare non accorgersene. Quanto a quella sull’immigrazione, a sinistra il “permesso a punti” ha suscitato forti contrarietà. Con buone ragioni, del resto, non solo perché, a differenza che in altri Paesi dove analoghi dispositivi sono stati adottati per il rilascio dello status di cittadini da noi si applicano per la semplice conferma di un’autorizzazione alla residenza, ma perché il clima politico del Paese induce a ritenere che si tratti più di ulteriori ostacoli alla regolarizzazione che di autentici interventi per l’integrazione. Ma non si può vivere, in politica e altrove, di sole denunce, e chi si occupa concretamente di immigrati sa di doversi mettere anche su altre lunghezze d’onda.
È un fatto che, anche indipendentemente dal permesso a punti – in dirittura d’arrivo, assicura il ministro Maroni – la lingua è essenziale non solo per l’inserimento lavorativo e sociale, ma per entrare in rapporto diretto con la cultura del Paese di approdo, per conoscere ed essere riconosciuti, e perfino per agevolare il successo scolastico dei propri figli (i 12 punti in più di ritardo scolastico per gli studenti di provenienza straniera nella primaria e i 40 punti nella secondaria superiore dicono il peso, anche per i nati in Italia, di nuclei familiari in cui non si parla italiano). Ed è un fatto che finora si è costruito troppo poco rispetto all’enormità dei bisogni. La Rete romana ha stimato, in base a indicatori che tengono conto dei dati di flusso (circa 20.000 ingressi nuovi ogni anno), dei permessi rilasciati nel 2008 dalla Questura (quasi 100.000, tra primi rilasci, rinnovi, rifugiati e accolti per motivi umanitari), dell’effetto-accumulo in una città con 300.000 residenti regolari (molti immigrati avvertono l’esigenza di un apprendimento strutturato, o hanno finalmente il fiato per seguirlo, anche cinque-sei anni dopo l’arrivo), un bisogno annuale di corsi per almeno 30.000 stranieri. Una stima forse troppo prudente. Ma intanto, nel 2008-2009, sono stati poco più di 6.700 gli immigrati che hanno utilizzato l’opportunità CTP, e poco più di 6.500 quelli che si sono rivolti al privato sociale. Uno scarto, quindi, di più del 50%: che si potrebbe allargare ancora per l’impatto sui CTP del nuovo regolamento e che certo le scuole migranti non possono colmare. Non perché manchino i volontari ma perché è difficile, soprattutto per l’associazionismo laico che non accede ai locali gratuiti delle parrocchie, trovare (anche presso le scuole che restano vuote il pomeriggio) altre aule che permettano uno sviluppo adeguato dell’offerta: per tutta la durata del giorno, anche nei giorni festivi, anche nei mesi estivi, come è necessario per allievi molto speciali, sempre in corsa tra un lavoro e l’altro. E come si dovrebbe sempre fare nell’educazione degli adulti in difficoltà. Mancano del resto anche altre risorse, per i materiali didattici e per la formazione specialistica degli insegnanti. Ma quella che manca di più è la risorsa della politica, con non troppe differenze finora tra governi territoriali e locali di centrodestra o di centrosinistra. È questo il punto.
Fiorella Farinelli