Corsi intensivi di Italiano lingua2: un cavallo di Troia?
Un proposta pragmatica su una tematica politicamente delicata
Il ministro Valditara ha aperto un nuovo capitolo, quello dell’integrazione scolastica degli studenti con background migratorio. Che cosa uscirà questa volta dal cappello del “ministro del merito” ? Anche se le politiche del governo su migrazioni e immigrati sono tali da suscitare diffidenze, gli orientamenti espressi finora dal ministro non sembrerebbero giustificarle. Pur parziale in termini di analisi e di soluzioni, il disegno che emerge da una sua recente pubblicazione e da parecchie dichiarazioni sembra a prima vista più pragmatico che ideologico, utile dunque alla riconsiderazione di un tema importante, su cui altri governi anche di tutt’altro colore politico hanno più proclamato che fatto. Il problema evidenziato dal ministro è il notevole svantaggio rispetto agli italiani a tutto tondo di questa parte della popolazione scolastica ( nel 2023 sono 872.360 studenti, il 10,3% del totale ) per risultati di apprendimento e abbandoni precoci. A dirlo sono numerosi studi che vedono anche su questo tema l’Italia collocata assai in basso nelle classifiche internazionali. A quasi trent’anni dalle prime scuole plurietniche e plurilingue, sono lenti e modesti i miglioramenti da un anno all’altro, tra cui la sempre più estesa partecipazione alla scuola superiore, licei compresi. E correlati più con i processi di stabilizzazione della popolazione immigrata, quindi col peso crescente dei nati in Italia ( ormai quasi il 68% del totale, ma solo il 45% nei percorsi per il diploma) che su una migliorata efficacia della scuola italiana. Le cause sono molteplici ( tra cui lo spiccato svantaggio economico sociale e professionale di gran parte delle famiglie immigrate ), ma l’accento viene posto sulle difficoltà linguistiche, che se non sono l’unico fattore di criticità hanno effettivamente un gran peso sui percorsi accidentati, sui ritardi, le bocciature, gli abbandoni degli studenti con storie proprie o familiari di emigrazione. La proposta del ministro è che le scuole attivino percorsi di apprendimento intensivo della lingua italiana come lingua 2 distinti dall’insegnamento nelle classi comuni ( dove gli studenti vengono e devono restare iscritti, come prevede la norma ). Le tipologie individuate sono due, le scuole dovranno scegliere tra percorsi aggiuntivi di tipo extracurricolare o percorsi distinti ma integrati nel curricolo comune.
Un’idea non nuova
L’idea non è così nuova come si pretende, e il fatto che venga proposta senza riferimento alla vasta gamma di altre azioni di sistema necessarie al successo dell’integrazione, che non contempli modulazioni per grado e tipo di scuola, che non accenni neppure alle numerose variabili soggettive e di contesti territoriali, costituisce indubbiamente un grave limite, di tipo anche culturale. Ma che si ipotizzino azioni di rafforzamento linguistico parzialmente e temporaneamente separati non dovrebbe essere un tabù per nessuno. Chi evoca il fantasma delle “classi differenziali”, chi si interroga pensoso sulle pagine dei giornali se l’idea sia di destra o di sinistra, sembra ignorare che pratiche di questo tipo fanno già parte dell’esperienza italiana di accoglienza e integrazione di alunni che, di prima o di seconda generazione, non hanno l’italiano come lingua materna. Sia nella forma, più facile da attuare, dei doposcuola o di altre opportunità fuori dall’orario scolastico ( e talora, molto positivamente, anche tra giugno e settembre ). Sia in quella, più complessa, di laboratori linguistici che sostituiscano in modo temporaneo e con andamento a scalare una parte degli insegnamenti comuni ( tipicamente quelli di italiano e delle discipline cui è troppo arduo accedere in presenza di forti deficit linguistici, quindi non matematica, tecnologie, lingua straniera, musica, educazione artistica e motoria ). Questa seconda forma, che è molto importante per i “neoarrivati” con nessuna familiarità con l’italiano – soprattutto minori “ricongiunti” e “non accompagnati” iscritti nelle due secondarie, ma anche profughi come si è ben visto con i ragazzi ucraini in fuga dalla guerra – è assai più rara della prima. Intanto perché i neo arrivati sono una quota minoritaria ( nel 2023 erano poco più di 19.000, di cui 14.000 nelle due secondarie), ma soprattutto perché richiede delicati equilibri tra insegnamenti comuni e speciali, postula mediatori linguistici e insegnanti specialisti, esige metodologie e strumentazioni didattiche specifiche.
Le risorse
Di tutto ciò finora Valditara non dice un bel niente, ma a chi sa cosa ha potuto finora fare la scuola italiana, e attingendo a quali risorse, non può sfuggire che la novità, almeno teorica, della sua proposta, consiste nel prevedere che i percorsi distinti – che si chiamino doposcuola, laboratori linguistici, percorsi a scalare – dovrebbero essere attivati dalle scuole in modo ordinario e con proprie risorse. Se fosse così, se sarà così, sarebbe un passo avanti. Perché finora la realtà è stata per lo più un’altra. Se infatti in molte scuole, soprattutto della secondaria di II grado, non si è attivato niente di simile, né in forma extracurricolare né in forma integrata nel curricolo comune, anche nella maggior parte di quelle in cui invece ci sono state esperienze, anche eccellenti, di cura dell’italiano lingua2 non solo come lingua della comunicazione ma anche come lingua per lo studio, è raro che si sia potuto operare con continuità e sistematicità, sedimentando prassi, metodologie, ricerca didattica, competenze professionali. Non si può farlo quando ci si deve arrangiare con finanziamenti speciali, progetti temporanei, volontariato professionale, contributi dell’associazionismo, variabili interventi degli enti locali eccetera. E neanche se ogni istituto autonomo, fuori da un’organizzazione e un governo territoriale del sistema, fa da sé e per sé. Sono relativamente poche, e solo in alcuni ambiti territoriali, le esperienze che, per un insieme di fattori favorevoli – tra cui l’impegno di alcuni Comuni, come quello notissimo di Prato, o quello di Verona dove agisce da anni un forte impegno finanziario ed organizzativo della Fondazione San Zeno – hanno potuto sviluppare sistematicità, continuità da un grado di istruzione scolastica e l’altro, coinvolgimento dello Zerosei, convergenza tra le azioni sulle competenze linguistiche e le altre necessarie all’integrazione. Il passaggio all’ “ordinario” implicherebbe una diffusività e un’omogeneità preziosa, con la possibilità di superare il solito andamento a macchia di leopardo dell’innovazione scolastica italiana.
In attesa del piano attuativo
Ma sarà così ? Impossibile dirlo finché non ci sarà quel piano attuativo a cui, si dice, stanno lavorando gli uffici di viale Trastevere. Per il momento non rassicura che il ministro abbia fatto riferimento a un investimento di poche decine di milioni, tra risorse del MIM e fondi FAMI, questi ultimi peraltro non tutti destinabili alla scuola e di cui è titolare il ministero degli interni. Non rassicurante è anche l’assenza di un’ipotesi di sviluppo di un corpo professionale specialistico, gli insegnanti della classe di concorso cosiddetta A23, finora assegnati solo ai CPIA e a cui, nell’ultima ondata di concorsi, è destinato il numero ridicolmente esiguo di soli 51 posti. Con quali risorse economiche e professionali dovrebbero essere attivati i nuovi percorsi? Si pensa di fare il bis – risorse scarse, nessuna figura professionale stabile, improvvisazione organizzativa – di ciò che è stato predisposto per l’orientamento ?
Un pregiudizio diffuso
Ma ci sono altre questioni su cui fare chiarezza, dentro e fuori le scuole, con gli insegnanti e nell’opinione pubblica. Tra i motivi per cui attivare percorsi temporaneamente distinti o separati, limitatamente all’apprendimento dell’italiano, non può esserci l’argomento secondo cui i deficit linguistici degli studenti con background migratorio sarebbero causa di peggioramento dell’apprendimento degli studenti italiani. E’ imperdonabile che a sostenerlo, come è successo, sia un ministro della pubblica istruzione. Non solo perché smentito da tutti i dati, a partire dai migliori risultati medi delle scuole del Nord e del Centro dove la presenza dei figli dell’immigrazione è spesso sopra il 20% rispetto al Sud dove è sempre molto al di sotto del 10% ( 3% in Campania, 2% in Sardegna ). E neppure perché è intuitivo, che per superare in fretta i deficit linguistici è decisivo lo scambio comunicativo tra pari nelle classi multilingue e che tale scambio linguistico, che è sempre anche culturale, fa bene a tutti. Il problema è che si tratta di un argomento maligno. Perché è lo stesso che viene utilizzato dalle tante famiglie italiane del ceto medio che fuggono dalle scuole con “troppi” studenti stranieri verso scuole, private e pubbliche, in cui non ci sono, contribuendo così a quelle scuole polarizzate per omogeneità di composizione etnica e sociale che secondo le norme e i regolamenti bisognerebbe in ogni modo evitare. A chi e a cosa guarda, dunque, la proposta Valditara dei percorsi distinti, a una migliore efficacia dell’integrazione scolastica o a rassicurare chi nelle scuole e fuori rifiuta di considerare quel 10% e oltre di ragazzi di altre lingue e altre provenienze come una risorsa da far crescere e da valorizzare proprio come tutti gli altri ( e tanto più in un Paese dove i giovani scarseggiano ) ?
Reazioni inconsulte
Ogni testo, certo, va visto nel contesto. E indubbiamento il contesto non è dei migliori se, come è appena successo, la decisione di un istituto comprensivo del milanese, i cui studenti sono per il 43% di cultura musulmana, di festeggiare la fine del Ramadan chiudendo la scuola per un giorno ( da recuperare con un inizio anticipato dell’anno scolastico ) viene sottoposta ad un attacco forsennato da più parti. Non solo da associazioni di destra estrema secondo cui la delibera sarebbe il segno del deplorevole “cedimento continuo all’islamizzazione” della nostra società ma anche da autorevoli esponenti politici ed istituzionali che se non la dicono proprio così poco ci manca. Fino al ministro stesso che oltre a dare il via all’imposizione del ritiro della delibera, disconosce la responsabilità educativa della scuola, nega ogni possibilità di decisione sul calendario scolastico ( ma non si chiudono le scuole perfino per il carnevale? nota con buon senso il Vescovo ), offende il lavoro degli insegnanti sventolando una, a suo dire, insufficienza dei risultati di apprendimento. Non è un buon momento, si direbbe, per lo sviluppo dell’ educazione interculturale, della conoscenza e del rispetto reciproci anche attraverso la condivisione delle feste e delle culture di tutti. E neppure per l’autonomia degli istituti scolastici. E’ invece un buon momento, come mostra il documento di sostegno all’istituto comprensivo firmato dalle associazioni professionali (questo è il link), per riprendere una discussione importante per la qualità della nostra scuola e del suo ruolo decisivo per il futuro del Paese. Altri due link utili a capire la vicenda: comunicato dirigenti FLC CGIL e comunicato parrocchie locali
Fiorella Farinelli Politica e saggista, docente esperta di istruzione e formazione, componente dell’Osservatorio nazionale per l'Integrazione degli alunni stranieri