150 ore, una vitale lezione dopo 50 anni
articoli correlati
A cinquant’anni dal 1973, quando un famoso contratto dei metalmeccanici ottenne il congedo retribuito per il diritto allo studio, si torna a discutere delle 150 ore. Ripercorrendo evoluzioni e involuzioni di un’esperienza che in un decennio fece partecipare ai corsi di scuola media centinaia di migliaia di lavoratori, attivò seminari universitari per delegati sui più disparati e complessi temi economici e sociali, inventò nei bienni di scuola superiore percorsi di un anno integrati con l’orientamento professionale, costruì inediti collegamenti tra fabbriche e scuole, tra operai e insegnanti. Di fatto la più massiccia, inventiva, duratura esperienza di educazione degli adulti che ci sia stata in Italia. Non c’è niente di occasionale o di solo celebrativo nelle iniziative per questo speciale compleanno. Da anni ricercatori accademici e sociali studiano gli archivi sindacali offrendo analisi, riflessioni, pubblicazioni utili ad affrontare problemi importanti che riguardano il nostro tempo. La verità è che quella vicenda, che pure concluse la sua fase espansiva nella prima metà degli anni Ottanta, parla ancora oggi. A chi si occupa di politiche attive del lavoro, di formazione continua, di educazione degli adulti, di apprendimento lungo il corso della vita, di formazione dei lavoratori e di tutti alle tecnologie, e perfino di nuova didattica della matematica, della storia, della lingua italiana. Leggere le riviste del tempo, e le numerose documentazioni locali, per crederci. Ci sono perfino le radici di quella strana pianta che si è poi chiamata alternanza studio lavoro, con la firma della FLM di Bologna del 1980.
Un lascito generativo, si dice, rispetto a un bel po’ di sfide dichiarate come cruciali che però non si materializzano mai in politiche adeguate. Non solo. L’originalità e la forza di una conquista sindacale che da una categoria dell’industria si trasmise rapidamente a tutte le altre superando di slancio i ristretti confini in cui il diritto allo studio era stato sancito, solo qualche anno prima, da uno Statuto dei diritti dei lavoratori che guardava esclusivamente ai lavoratori studenti, quelli che tornavano a scuola per un’ emancipazione tutta individuale dal lavoro operaio, tutto ciò fa vivere ancora come un’ occasione perduta il fatto che a un certo punto fu il sindacato stesso che l’aveva fatta nascere a disamorarsene. Perché andò a finire così ? Com’è potuto succedere nonostante i corsi sperimentali per lavoratori siano rimasti in piedi fino al 1997, quando il ministro Berlinguer istituì saggiamente i Centri territoriali di educazione permanente avendo cura di tenere aperto, accanto ai corsi formali di scuola primaria e media, lo spazio per attività riconducibili all’educazione degli adulti. Una stranezza che fa il paio con il duraturo mantenimento, nei contratti, del congedo per il diritto allo studio, talora identico a com’era stato scritto la prima volta e in altri casi invece parzialmente modificato, ma sostanzialmente non utilizzato o solo in via individuale. Com’è stato possibile ? E soprattutto cosa ci raccontano i milioni di ore per attività formative regalate per decenni ai datori di lavoro, della capacità del sindacato – e delle parti sociali – di attuare quel che occorrerebbe ai lavoratori( e anche alle imprese ) nella cosiddetta società della conoscenza ?
Molte, forse troppe, domande. Ma è indubbio che non apparivano convincenti allora, e neppure ora, gli argomenti secondo cui la disaffezione sindacale sarebbe stata indotta dai mutamenti dell’iniziale composizione sociale dei frequentanti. Sempre meno, già alla fine dei Settanta, gli operai della grande industria ( il bacino dei senza licenza media si andava del resto restringendo per gli effetti dell’obbligo di istruzione fino ai 14 anni, datato 1962 ) e invece sempre più casalinghe, bidelli, giovani drop out, immigrati stranieri, precari, commesse, lavoratori delle piccole imprese che non potevano far valere il congedo retribuito. Un accesso sempre più a titolo individuale, non collettivo e non per finalità comuni com’era stato nelle intenzioni. Per molti, soprattutto gli insegnanti dei corsi per lo più appassionati ad un’esperienza motivante sul piano sociale e professionale ( per molto tempo, prima della stabilizzazione dell’organico richiesta dai sindacati della scuola, si andava a insegnare lì per libera scelta ), l’interpretazione da parte del sindacato di quel mutamento come declino o snaturamento risultò incomprensibile. Perché non si poteva invece interpretarlo – ed esserne orgogliosi – come il segno evidente che una conquista sindacale, degli operai per gli operai, si andava trasformando in una conquista sociale, e quindi decidere di rilanciarla, estenderla, trasformarla in diritto di tutti ? Una domanda sensata, che tuttavia non poteva essere rivolta al sindacato, o solo ad esso. La macchina indietro, o la delega ai sindacati della scuola che non furono all’altezza, furono determinati dal diverso contesto con cui il sindacalismo industriale, e le Confederazioni, dovettero misurarsi nei primi anni Ottanta, la fase delle grandi ristrutturazioni che costrinse, dopo un decennio di impetuoso sviluppo delle lotte operaie, a conflitti anche molto aspri ma di tipo per lo più difensivo. A dover quindi fare i conti con lo scarto tra la sfida ambiziosa – rivoluzionaria ? – delle 150 ore come sviluppo di un “sapere operaio” in grado di controllare e trasformare l’organizzazione capitalistica del lavoro – una sfida figlia della grande spinta egualitaria ed emancipatrice della stagione successiva all’autunno caldo del 1969 – e la gelata che arrivò un decennio dopo ( la sconfitta sindacale alla Fiat è del 1980 ). Un cambiamento di fase traumatico per il sindacato operaista e industrialista di allora, che portò a dolorosi ripiegamenti. Anche le Confederazioni CGIL CISL UIL dovettero cambiar pelle. Non potevano più essere quelle che, in nome di un mondo del lavoro portatore di interessi generali e perciò legittimato ad intervenire sull’intero arco delle politiche sociali, avevano nel 1974 minacciato lo sciopero generale per ottenere la nuova normativa sulla gestione sociale della scuola .
Il problema vero, e le vere responsabilità vanno cercate altrove. Non entrò infatti in campo, né immediatamente né dopo chi doveva e poteva farlo, cioè la politica. Che ancora ora, nonostante la legge 92 del 2012 che definisce il diritto alla formazione in età adulta come diritto soggettivo e definisce ambiti, finalità, attori di un sistema di apprendimento permanente, non ha mai voluto mettere a fuoco il problema e fare i passi necessari per risolverlo. In un recente convegno di FIOM e CGIL sulle 150 ore e il diritto all’apprendimento permanente, un professore di storia invitato a delineare il contesto in cui il congedo retribuito per il diritto allo studio fu ideato, ottenuto, attuato, ha sostenuto che se gli anni Settanta-Ottanta sono stati in Italia una stagione di importanti riforme spinte da forti conflitti sociali, non c’è stata però a dargli continuità e sviluppo una solida e sapiente cultura riformista. Riforme senza riformismo, dunque, una sintesi forse eccessivamente drastica ma che, almeno nel campo dell’istruzione e formazione, può spiegare parecchi dei guai dell’oggi.
E’ sullo sfondo di queste riflessioni che si ridiscute oggi dell’ antica ma ancora vitale lezione delle 150 ore. In due direzioni diverse, ma interconnesse. La prima riguarda l’iniziativa contrattuale del sindacato, ben oltre le acquisizioni recenti – come nel contratto, ancora una volta dei metalmeccanici, del 2016 – con cui si è tentato, ma con scarsi sviluppi attuativi, di aggiornare il dispositivo del congedo finalizzandolo sia alla formazione d’interesse delle aziende sia al diritto soggettivo alla formazione dei lavoratori. Ma è l’intera routine della formazione continua, anche quella ben finanziata e gestita pariteticamente dalle parti sociali, che occorrerebbe rivisitare. La sfida, oggi, non è più la scuola media, occorrerebbero livelli più alti di competenze trasversali e professionali, e una cultura più alta, a partire dai problemi della sicurezza. Ma se ci fosse un’ambizione in qualche misura comparabile alle ambizioni delle vecchie 150 ore, il fuoco dovrebbe essere quello di una campagna formativa di massa sul tema delle nuove tecnologie, la digitalizzazione, la de materializzazione di intere lavorazioni, lo scarto tra chi produce i software e chi è costretto ad utilizzarli senza saperne niente, l’impatto dell’intelligenza artificiale. E’ da qui che passa, infatti, la capacità di non essere subalterni, di non subire passivamente, di controllare e migliorare l’organizzazione del lavoro. La seconda direzione riguarda tutte le articolazioni dell’offerta formativa, nessuna delle quali al momento sta conquistando profili di coerenza con il tema dell’apprendimento lungo tutto il corso della vita. Nessuna sarebbe pronta a far parte e a contribuire a un sistema per l’apprendimento permanente, con la capacità di valorizzare e certificare le competenze acquisite dovunque e comunque, quindi anche quelle non formali costruire nel lavoro, nella vita sociale, nella cittadinanza attiva. A partire dalle nostre attuali scuole per gli adulti che, con il passaggio del 2007 dai Centri voluti da Berlinguer ai Centri provinciali per l’istruzione degli adulti, hanno non solo nel nome perso ogni potenzialità tipica dell’educazione per gli adulti e dell’apprendimento permanente. Divenendo così poco attrattiva per l’enorme area dei giovani senza diploma e concentrandosi prevalentemente sull’apprendimento della lingua italiana degli stranieri immigrati. Attività preziosa da molti punti di vista, quest’ultima, ma sideralmente lontana dalle sfide del lifelong learning. Chissà se il compleanno delle 150 ore contribuirà a far entrare aria nuova.
Fiorella Farinelli Politica e saggista, docente esperta di istruzione e formazione, componente dell’Osservatorio nazionale per l'Integrazione degli alunni stranieri