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La dislocazione territoriale dei servizi per l’infanzia

Pubblicato il: 13/09/2023 04:32:28 -


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Durante l’estate sulle cronache locali un po’ di tutti i giornali tiene banco la richiesta dei servizi per l’infanzia: famiglie, enti locali, agenzie formative pubbliche e private si preparano ad iniziare un nuovo anno formativo e lavorativo. L’educazione dei più piccoli sembra interessare soltanto le esigenze di conciliazione dei tempi di lavoro e di cura dei genitori, mentre sempre di più sono rilevanti gli obiettivi di crescita personale e sociale dei bambini stessi fin dalla più tenera età nei loro stili di apprendimento.

Le politiche territoriali che devono confrontarsi con le diverse esigenze finiscono per realizzare servizi piuttosto raffazzonati, ad opera soprattutto degli enti locali che non presentano un’adeguata capacità amministrativa, soprattutto i più piccoli, sia sul piano della programmazione, sia nell’interazione con i propri cittadini per far comprendere l’importanza del lavoro sulle giovani generazioni per lo sviluppo dell’intera comunità.

E’ ancora molto disomogenea infatti la visione culturale e pedagogica sulle funzioni di detto servizio, che a volte si trasforma in conflitto politico, e questo tende a condizionare anche la domanda, proponendo opportunità con diverso potenziale educativo, che cerca di soddisfare in primis i bisogni non solo lavorativi degli adulti nelle più svariate parti della giornata e non solo, per cui anche l’offerta risente di sensibilità locali che premono sulle amministrazioni. In questo modo la forchetta delle richieste tende ad ampliarsi e incide anche sulla capacità da parte loro di attrarre risorse, come vediamo nel caso del PNRR, per mancanza il più delle volte non tanto di competenze tecnico-progettuali, ma di idee pedagogiche e organizzative rispetto al come realizzare il servizio stesso, anche sul piano del divario territoriale. 

Se consideriamo i vari rapporti che vengono elaborati nel nostro Paese alla voce servizi per l’infanzia troviamo i dati più disparati. L’ISTAT ci dice che la percentuale di copertura rispetto ai bambini residenti è  ancora al di sotto dell’obiettivo europeo, solo un bambino su tre da zero a due anni frequenta una struttura educativa e siamo ancora molto lontani dal nuovo target del 50% entro il 2030. A livello territoriale si confermano ampi divari nell’offerta di tali servizi, con una presenza prevalente al nord, mentre al sud e nelle isole si registrano carenze anche se in lieve miglioramento.

Il decreto 65/2017 ha cercato di rendere più omogenea la struttura di detti servizi assicurando un finanziamento statale da zero a sei anni, ma il processo è ancora difficile da riorganizzare su tutto il territorio nazionale proprio per le diverse sensibilità culturali e sociali di cui si è detto, così come l’utilizzo del bonus asilo nido, a sostegno delle famiglie per il pagamento delle rette, avviene prevalentemente al centro-nord; solo il 59,6% dei comuni, ci dice ancora l’ISTAT, garantiscono una offerta sul territorio, sia sotto forma di strutture comunali o convenzionate, sia attraverso contributi: al nord si raggiunge l’80%, al sud e isole il 40.

Partendo dal predetto decreto il PNRR avrebbe voluto effettuare una perequazione territoriale, ma le scadenze vengono sempre procrastinate e se pensiamo che le politiche per l’infanzia erano tra i primi obiettivi da soddisfare nella domanda europea, si sbandiera da parte del Ministero di aver convinto, con l’appoggio dell’ANCI, oltre il 90% dei comuni a presentare progetti, ma bisognerà attendere l’espletamento di tutte le fasi del processo per dire se l’obiettivo sarà davvero raggiunto e quanti se perderanno per strada.  

Il rapporto SVIMEZ infatti denuncia l’estrema frammentarietà dell’offerta e profondi divari territoriali nella dotazione di strutture e nella spesa pubblica delle amministrazioni locali, ed anche la carenza di offerta nel Mezzogiorno per quanto riguarda l’orario, quello prolungato è molto meno diffuso. Nella scuola primaria la percentuale di alunni che frequenta il tempo pieno è più bassa nelle regioni meridionali, molti di costoro non usufruiscono di un servizio di mensa ed oltre il 66% delle scuole non sono dotate di una palestra: altri elementi strategici del PNRR di cui si sono perse le tracce.

SVIMEZ ci dice che solo il 18% degli alunni del Mezzogiorno accede al tempo pieno rispetto al 48% del centro-nord e che gli allievi della scuola primaria al sud frequentano mediamente 4 ore di scuola in meno la settimana, con tassi di abbandono più elevati: staremo a vedere l’efficacia dell’annunciato piano sud del ministro Valditara, basato su maggiori compensi ai docenti delle cosiddette materie di base, azioni già previste dalle passate norme sui contratti di lavoro, che però non avevano mostrato particolare efficacia, senza una strategia che abbini l’innovazione didattica con la modernizzazione degli istituti scolastici, nonché una maggiore autonomia degli stessi nella progettazione e nella possibilità di interagire con la realtà del territorio, dalla quale trae origine un’efficace “educazione prioritaria”.

Gli obiettivi europei in tal modo non possono venire raggiunti al sud per carenze strutturali, che si ripercuotono anche sulla domanda e sono largamente insufficienti al nord per eccesso della stessa. Paradossale che da una parte non si riesca nemmeno a farla emergere questa domanda, mentre dall’altra aumentano le liste di attesa; tale situazione è aggravata dai restauri alle strutture che ne limitano ulteriormente l’utilizzo, dovendo procedere ai lavori in tempi e modi contingentati per tutto il territorio nazionale.

Per un verso dunque occorrerebbero interventi  a beneficio degli amministratori locali accompagnati da stimoli pedagogici e sociali che facciano percepire l’importanza e la funzione di detti servizi per lo sviluppo di tutto il territorio, per un altro ci sono soprattutto comuni che soffrono le restrizioni, a fronte di una maggiore sensibilità delle comunità; qui si va oltre l’idea di servizio sociale, verso la progressiva consapevolezza che viene dal modo in cui è fornito il servizio stesso, circa il beneficio educativo per la crescita dei fanciulli e delle comunità.

Risulta così una polarizzazione degli interventi che ne paralizza lo sviluppo e mette in crisi le modalità e i tempi per una loro omogenea diffusione su tutto il territorio nazionale, obiettivo del programma europeo. A ciò aggiungasi le richieste dei bandi di intervenire contemporaneamente con tutti i lavori programmati, il che mette ancora più in crisi le scarse risorse progettuali di tanti enti locali che avrebbero maggiore necessità di interventi innovativi, e la dove magari c’è più richiesta si frappongono attività di ripristino che rallentano l’utilizzo del servizio. E’ stato inutile pensare che si potesse porre mano ai restauri in periodo di chiusura estiva: in Italia i lavori pubblici si sa a mala pena quando iniziano.

Passata la pandemia la domanda torna ad alzarsi, soprattutto la dove oltre alle esigenze lavorative torna a crescere la sensibilità di quelle famiglie che richiedono tali servizi anche per scelte educative, verificando come la socialità dei figli sia una premessa per il loro equilibrato sviluppo personale e cognitivo. Se infatti i posti sono pochi e il sistema è fragile anche la domanda sarà depressa, ed a maggior ragione se si accompagna con quelle realtà nelle quali si fa maggiormente sentire il calo demografico.

Il citato decreto ha istituito i poli per l’infanzia, non perché ci fosse bisogno di un’altra struttura per complicare la vita ai territori dal punto di vista burocratico, il mettere sotto lo stesso tetto i diversi segmenti formativi in continuità va ad aiutare gli istituti comprensivi del primo ciclo in modo da rinforzarne la presenza e l’efficienza soprattutto in quelle realtà che si sentono più abbandonate e che da quelle strutture possono ricavare anche messaggi di carattere culturale e sociale di cui certi territori hanno bisogno.

Un’ultima questione riguarda gli operatori e le loro caratteristiche professionali. Si tratta di preparazione remota che attualmente può contare su un corso di laurea triennale per educatori, ma che potrebbe essere rivisto alla luce delle scienze della formazione primaria, nel settore dell’infanzia, ma anche sullo stato giuridico ed economico che oggi mette in crisi i comuni, sia quelli più grandi che hanno bisogno di una certa quantità di personale che devono reperire direttamente sul mercato dei titoli di studio, sia per quelli più piccoli che devono mettere in campo esigenze di carattere logistico soprattutto per le aree interne e le piccole isole. Serve dunque uno status assimilabile a quello dei docenti della scuola per l’infanzia: devono stare insieme nei poli e vanno superate la precarietà della dipendenza da soggetti del terzo settore più adatti ad esperienze di carattere sociale che non istituzionale, come sono ormai diventati coloro che operano in un settore che per legge è parte stabile del nostro sistema.

Gian Carlo Sacchi  Esperto di politica scolastica. Ha fatto parte del Consiglio di amministrazione dell’INDIRE e ha fatto parte del comitato Scientifico della Regione Emilia Romagna per le esperienze di integrazione tra istruzione e formazione professionale.

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