Formazione iniziale e continua, reclutamento degli insegnanti
Il 12 aprile il ministro Bianchi ha presentato ai sindacati i tratti essenziali di un decreto su formazione, reclutamento, carriera degli insegnanti da approvare, secondo l’impegno assunto con l’UE, entro giugno. Si tratta di uno dei sei interventi di riforma in materia scolastica previsti dal PNRR, il più atteso e forse il più importante. Se non è vero che a fare una buona scuola bastano solo bravi insegnanti, è però certo che senza è impossibile perfino provarci. Con la riforma si dovrebbe aprire la strada a una forte valorizzazione della professione insegnante e a una migliore motivazione e preparazione professionale degli insegnanti come fattori decisivi di miglioramento della scuola e dei risultati degli studenti. Fin qui tutti d’accordo, ma ogni tentativo in questa direzione è stato negli ultimi due decenni sempre contrastato, impedito o vanificato. Anche questa volta se ne profila il rischio, le prime reazioni sono state per lo più drasticamente negative, e le obiezioni di metodo e di merito sono sempre le stesse. Da un lato il rifiuto di porre fine agli ingressi in ruolo senza concorsi, o per via di sanatorie mascherate con procedure concorsuali agevolate, di un precariato privo di adeguata formazione e alimentato incessantemente dalla tradizionale organizzazione del lavoro scolastico, dall’altro l’opposizione all’introduzione di progressioni di carriera basate non sul criterio automatico e identico per tutti dell’anzianità di servizio ma sulla diversificata qualità professionale e sulle diverse tipologie di impegno nella scuola. A cui si aggiungono le resistenze di parte del mondo universitario ad organizzare, per chi sceglie l’insegnamento nelle due scuole secondarie, curricoli comprensivi di una formazione professionale iniziale fatta sia di apprendimenti teorici che di tirocini guidati e valutati.
Nella bozza di decreto ci sono tracce evidenti delle difficoltà del contesto. Sia nella previsione, almeno fino al 2024, di modalità di reclutamento distinte e facilitate per gli insegnanti anche non abilitati ma con 360 giorni di servizio in 5 anni, sia nel modello di carriera che viene proposto. Dove si fa la scelta, assai poco innovativa, di progressioni salariali “accelerate” dalla partecipazione a certe tipologie di formazione continua e, cosa ancor più controversa, dai risultati delle rilevazioni Invalsi. Mediazioni preventive che tradiscono il mandato della norma sull’autonomia e non tengono conto delle esigenze di riconoscimento, continuità e dignitosa retribuzione degli incarichi e delle funzioni dei docenti più qualificati e più impegnati nell’organizzazione della scuola e delle sue attività: e tuttavia non sufficienti, si direbbe, a mitigare le contrarietà pregiudiziali e ad aprire un confronto costruttivo. Si vedrà nelle prossime settimane che cosa seguirà agli altolà sindacali e politici e alle tante dichiarazioni di “irricevibilità”. Va comunque detto che nel testo ci sono, oltre a parti che dovrebbero essere migliorate, anche importanti passi avanti. Innanzitutto la centralità attribuita alla formazione professionale iniziale e ai suoi effetti in termini di motivazione all’insegnamento. Per diventare insegnanti si dovrà infatti aggiungere alla laurea magistrale un anno di specializzazione articolato in apprendimenti teorici e pratici attinenti alla professione e conseguire, tramite una prova finale, l’abilitazione che diventa così il requisito essenziale per partecipare ai concorsi “annuali” per l’ingresso in ruolo. Segue, come in numerose altre professioni, l’anno di prova che, se non superato con valutazione positiva, potrà essere reiterato solo una seconda volta. Tutto ciò significa il superamento, finalmente, della pessima ma consolidata idea secondo cui, per insegnare, basta la conoscenza della disciplina. Distinguere chiaramente, inoltre, il conseguimento dell’abilitazione professionale dal concorso per l’immissione in ruolo, mentre taglia alle radici la possibilità di interpretare la prima come diritto a un posto di lavoro stabile e garantito, apre la strada a concorsi dedicati unicamente alla copertura delle carenze effettive, locali e per specifiche discipline. Basta, insomma, con i concorsi attuali, quelli che servono anche a conseguire l’abilitazione. E basta ai tanti “bocciati” che però tornano in classe ad insegnare come se niente fosse successo, e a rivendicare il diritto ad entrare in ruolo in base alla sola esperienza di insegnamento non sottoposta ad alcuna valutazione. Un’ovvietà, si direbbe, ma non nella scuola italiana. Non è un modello esente da limiti, ma di sicuro più lineare, sostenibile, qualificante di altri finora praticati o ideati, compreso il percorso disegnato ma mai attuato della legge 107/2015.
Assai più discutibile, invece, la proposta di nuova carriera. Perché si tratta solo di “accelerazione” degli scatti retributivi attuali, di una progressione basata esclusivamente sulla formazione continua e non sulle competenze professionali nell’insegnamento e nelle diverse funzioni (coordinamento didattico, progettazione, organizzazione, nuove tecnologie, orientamento, rapporto col territorio) esercitate nella scuola. Non solo. Il riferimento, come indicatore di qualità professionale, ai risultati delle rilevazioni Invalsi, oltre ad essere per molti versi inaccettabile perché su di essi incidono fattori non riferibili al solo insegnamento disciplinare, è indubbiamente foriero di distorsioni interpretative della loro funzione. Siamo dunque ancora lontani da un modello coerente con la norma e con l’attuazione concreta dell’autonomia scolastica. Il modello proposto non prefigura il superamento di quella carriera “piatta” che caratterizza in Italia la professione docente, non apre al riconoscimento delle figure e delle funzioni professionali necessarie a un buon funzionamento della scuola, non incoraggia i laureati migliori a impegnarsi nell’educazione. Passa anche da qui, dalla possibilità di crescere professionalmente e di vedersi riconosciuto l’impegno nella scuola, il superamento dello scarto retributivo degli insegnanti italiani dai colleghi di altri paesi europei. Quello che fa la differenza, nella maggior parte dei casi, non è infatti nei livelli retributivi di inizio carriera, ma in quelli che si possono raggiungere successivamente, in tempi relativamente brevi e non solo attraverso la formazione continua.