Formazione iniziale dei docenti della secondaria, questione aperta
Il punto sulla formazione iniziale degli insegnanti
La questione di una nuova formazione iniziale per gli insegnanti della secondaria ha ormai una storia lunga. Siamo quasi a sette anni dalla legge 107 e a cinque dal previsto Dlgs 59 che aveva proposto una modifica sostanziale della formazione iniziale. Ma quel progetto di Formazione iniziale e tirocinio (Fit) non ha mai avuto realizzazione: un percorso triennale per arrivare al ruolo è sembrato troppo lungo e alcune forze politiche hanno pensato bene di cavalcare il malcontento dei precari. Di fatto il Fit è stato bloccato dal governo successivo che ha mantenuto unicamente il primo passaggio del Dlgs che prevedeva 24 crediti formativi universitari da acquisire per l’accesso all’intero percorso triennale. Una scelta a mio parere sbagliata perché quello che era un semplice prerequisito è diventato l’unica richiesta necessaria per accedere al concorso, acquistabile peraltro un po’ ovunque nel mercato libero che si è scatenato. Di fatto al concorso è stato dato un valore formativo, che non può avere, invece di quello selettivo di candidati già adeguatamente formati.
Ad oggi quindi abbiamo il risultato di un obbrobrio tecnico e politico: l’abolizione di un progetto che aveva una sua organicità, metteva a ruolo in tre anni (nulla rispetto agli attuali tempi biblici) e prevedeva un riconoscimento economico a chi dedicava tempo e studio alla propria formazione, di cui restano in piedi quei 24 cfu che avevano un significato originale totalmente diverso. Una tale scelta dimostra quanto la politica degli ultimi anni sia stata incapace di comprendere la centralità della formazione dei docenti per il cambiamento della scuola.
Il documento dell’osservatorio interistituzionale per la formazione iniziale
Adesso viviamo una stagione nuova, con risorse economiche ben diverse dal passato, un’occasione forse irripetibile per cambiare strada.
Tuttavia, sotto la spinta a far presto per rispettare i tempi stabiliti dal PNRR si è aperto un dibattito molto confuso, nel quale le associazioni professionali degli insegnanti hanno sentito il dovere di intervenire.
Si è costituito un Osservatorio interistituzionale sulla formazione iniziale degli insegnanti con la partecipazione di docenti di scuola, Università e Afam e successivamente Aimc, Cidi, Mce e Proteo hanno espresso congiuntamente in un documento la loro preoccupazione per il modo in cui veniva condotto il dibattito sul nuovo sistema di formazione iniziale dei docenti della scuola secondaria: un continuo di interviste e indiscrezioni senza che fosse stato presentato un documento, seppur minimo, su cui si potesse discutere.
La quattro associazioni hanno sottolineato come l’idea che stava trapelando di una formazione con acquisizione di 60 crediti formativi all’interno dell’intero percorso universitario, con un percorso parallelo costruito individualmente, in una logica fai-da-te che per accumulo di cfu porti al numero di 60, fosse semplicistica e inadeguata. La scelta dell’insegnamento può essere per uno studente una scelta matura, che si forma nel tempo e d’altra parte non è pensabile affrontare tematiche epistemologiche e didattiche senza prima possedere adeguate conoscenze sulle discipline che ne sono la base.
Nel dibattito è intervenuto anche il Consiglio Universitario Nazionale per criticare l’ipotesi su cui stavano orientandosi al ministero, sostanzialmente perché i nuovi crediti sconvolgerebbero l’assetto universitario, ma la sua critica alle lauree abilitanti si è tradotta nella proposta di spostare la formazione all’insegnamento dopo il superamento del concorso. Un’ipotesi a mio parere non soddisfacente perché di fatto nega che vi sia bisogno di formazione per l’accesso all’insegnamento riducendola a un percorso formativo quando si è già di ruolo, quindi senza tirocinio e con il peso del servizio in un contesto specifico obbligato. Vi sono forse professioni in cui è sufficiente aggiungere un surplus di pratica alle conoscenze accademiche, ma non è certo il caso della scuola dove il contesto, il ruolo e le responsabilità che l’insegnante deve assumere, oltre che le materie stesse di insegnamento, sono diverse e aggiuntive rispetto al bagaglio, certamente indispensabile e prezioso, che si acquisisce con la formazione universitaria.
Un percorso formativo che mettesse al primo posto le scelte individuali di ciascuno studente non può formare il docente che serve oggi, un professionista che opera in una istituzione pubblica che chiede capacità di coordinazione e progettazione in una visione sempre collegiale e coerente del lavoro.
Il sistema di formazione deve avere una regia congiunta tra scuola e università per definire le competenze indispensabili per il compito che si andrà a svolgere. La capacità di gestione di una classe, con la necessità di prendersi cura di tutte le problematiche connesse all’apprendimento, non sarà mai il premio previsto una volta completato l’album dei crediti.
Non si può non sottolineare come appaiano paradossali queste proposte se confrontate con le crescenti critiche che mettono in evidenza la scarsa competenza dei docenti e con il sempre maggior aggravio di funzioni attribuite alla scuola. Davvero sembra che non si abbia nessuna cognizione della realtà della scuola di oggi.
Per acquisire le competenze necessarie ad insegnare nella scuola dell’adolescenza, sapendo gestire lo sviluppo personale di ogni allievo e allieva e l’incontro con le discipline, serve tempo. Serve un serio tirocinio e una riflessione che coinvolga scuola e università, da non confondersi con un semplice praticantato.
Le proposte delle associazioni professionali dei docenti e dei Presidenti delle società pedagogiche
Per questo le associazioni che sono intervenute nel merito della formazione dei docenti hanno convenuto che occorra almeno un anno post-laurea di 60 crediti, teorici, laboratoriali e di tirocinio diretto e indiretto. Questa architettura permette ulteriori arricchimenti con un credito formativi acquisibili già nel percorso della laurea magistrale, ma ben limitato nel numero per non snaturare l’anno di master/specializzazione abilitante e solo all’interno delle stesse università che ne garantisca la serietà e coerenza rispetto al profilo formativo individuato rispetto alle classi di insegnamento corrispondenti. Questa architettura appare essere anche la più adatta per individuare percorsi abilitativi per chi ha già anni di servizio nella scuola e per il passaggio tra il percorso per le cattedre di sostegno e quelle comuni. Questo non esclude certo che l’anno di formazione e prova sia realmente tale, prevedendo riflessione guidata sulla pratica di lavoro e approfondimenti teorici a partire dall’esperienza d’insegnamento. Anche questo però sarà possibile se e solo se la scuola sarà in contatto stretto con l’Università.
Ma è fondamentale dare il messaggio ai futuri insegnanti che il tempo che dedicheranno alla loro formazione non è tempo perso, tanto meno un lusso per chi se lo può permettere, bensì la conferma tangibile dell’importanza che il Paese dà alla loro futura funzione sociale e il primo tassello, fondamentale, nella costruzione della loro professionalità. Una professionalità, ben inteso, che deve essere costantemente alimentata con una formazione permanente che abbia per soggetti ancora Scuola e Università.
A questa richiesta si è recentemente affiancata quella della Consulta dei Presidenti delle società pedagogiche che ha scritto ai ministri Messa e Bianchi illustrando la propria proposta “basata sui seguenti criteri/aspetti: un anno di formazione post-laurea, nel quale possono essere riconosciuti solo un numero ridotto e predefinito di crediti delle esperienze precedenti; la didattica deve avere soprattutto un carattere laboratoriale e non deve essere una riproposizione di contenuti la cui acquisizione avviene nei cinque anni di studi universitari precedenti; il percorso formativo vede un equilibrio e un’integrazione tra Scienze dell’educazione (prevalentemente pedagogiche, ma anche psicologiche, antropologiche, sociologiche e filosofiche), didattiche disciplinari e tirocinio; il percorso va gestito nelle Università da Centri di Ateneo per la formazione degli insegnanti appositamente istituiti, se non presenti, avendo cura, sia per la didattica sia per i tirocini, di realizzare una forte integrazione tra la docenza accademica e la professionalità di insegnanti che abbiano maturato una forte esperienza sul campo.”
Come condizioni di sostenibilità della proposta la Consulta prevede “risorse professionali adeguate alla domanda per quanto riguarda sia i docenti universitari delle aree disciplinari e delle scienze dell’educazione sia un adeguato contingente di docenti della scuola secondaria di I e II grado in distacco, come è previsto per Scienze della formazione primaria; nelle università spazi di aule e laboratori e adeguato sostegno amministrativo; una stretta collaborazione con le scuole per la gestione dei tirocini, considerati l’elemento di sintesi tra teoria e prassi e, quindi, motore del percorso formativo complessivo.
Non sfuggirà a nessuno la coerenza di questa proposta e delle condizioni per la sua realizzazione con quanto riportato in riferimento alla posizione di Aimc, Cidi, Mce e Proteo, che rappresentano certamente una posizione largamente condivisa anche tra le altre associazioni professionali della scuola.
La centralità del rapporto tra Scuola e Università
Per concludere credo che sia prioritario mettere al centro un nuovo e più profondo legame tra Università e Scuola, aspetto determinante nel ripensamento della formazione iniziale. Nell’attuale situazione la scuola non possiede sedi di riferimento per sviluppare l’autonomia di ricerca e di sperimentazione, pure prevista per legge da più di vent’anni. Fino ad ora il rapporto Scuola-Università è stato labile, ridotto al rapporto tra singoli insegnanti e l’Università, con un ritorno per la scuola contenuto nel potenziamento delle competenze del singolo insegnante e dalle eventuali e casuali disseminazioni di tali competenze.
Ma un reale intreccio tra Scuola e Università può costruirsi solo se ciascuno dei due soggetti risulta, nei confronti della ricerca didattica, portatore di una propria e distinta identità con compiti e funzioni specifiche.
Negli anni passati l’esperienza dei corsi di laurea per gli insegnanti primari e delle scuole di specializzazione per gli insegnanti secondari ha certo sperimentato un livello alto del rapporto tra l’Università e singoli insegnanti, ma la scuola non è ancora riconosciuta come un soggetto autonomo per svolgere ricerca.
Forse oggi si apre la possibilità di riconoscere vero valore alla professione insegnante con la previsione di una seria formazione iniziale agganciata ad una formazione permanente altrettanto indispensabile. Un percorso che permetta non solo di formare adeguatamente i nuovi insegnanti, soggetti “in” formazione, ma anche di far crescere la collaborazione attiva tra Scuola e Università, soggetti “della” formazione.
Beppe Bagni. Presidente Nazionale del Cidi