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Dal piccolo al grande. Percorsi per apprendere la storia e non solo – di Mario Fierli

Pubblicato il: 27/02/2019 14:41:55 -


La storia del Mediterraneo attraverso il racconto di 20 oggetti.
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Può capitare che la lettura di un libro, oltre che darti piacere, funzioni da catalizzatore per chiamare a raccolta idee che vanno oltre al libro stesso.

È  il caso del recente Storia del Mediterraneo in 20 oggetti, Laterza 2018, di due storici Amedeo Feniello e Alessandro Vanoli, la cui lettura oltre a procurare il piacere del racconto storico  (almeno a me), spinge a riflessioni non solo sull’insegnamento della storia, ma sull’insegnamento in generale. Il libro adotta un modello di successo già usato da Neil McGregor con La storia del mondo in cento oggetti, Adelphi 2012. Mac Gregor, già direttore del British Museum, scelse 100 oggetti del museo e usandoli come emblemi, raccontò, per ciascuno di essi, una civiltà, un costume, una storia. La stessa cosa hanno fatto i due autori italiani scegliendo 20 oggetti da un museo virtuale per riscostruire la storia del Mediterraneo: la bussola per la navigazione e i commerci, l’abaco per la diffusione della matematica dei numeri, la chitarra per una storia delle contaminazioni musicali fra mondo classico, Islam, Spagna e Napoli. Assolutamente da studiare a scuola la storia dei barconi, che è una straordinaria ricostruzione delle migrazioni fra le sponde del Mediterraneo in tutte le direzioni possibili. È  ovvio che, oltre ai temi specifici, il sotto tema costante è l’alternanza, il conflitto, lo scambio, l’osmosi fra le culture mediterranee.

Cosa c’è di coinvolgente in questo approccio?

La prima risposta è l’introduzione di una dimensione narrativa nelle diverse culture specialistiche. Per rimanere alla storia, perché si impara di più (e persino ci si diverte), leggendo Armi Acciaio e Malattie di  Jared Diamond  che studiando un capitolo sulla storia del colonialismo spagnolo in un manuale scolastico? Lo spiega benissimo Jerome Bruner a partire da Il conoscere. Saggi per la mano sinistra, Armando 1964 e poi in La mente a più dimensioni, Laterza 1988 fino a  La fabbrica delle storie, Laterza 2002. Bruner usa la metafora pianistica della mano destra ( La fase teorica-razionale del risultato raggiunto) e della mano sinistra (La fase soggettiva-irrazionale del percorso) e la associa a due forme espressive, l’esposizione teorica e la narrazione, sostenendo che ambedue sono strumenti di conoscenza indispensabili e complementari.[1]

La seconda risposta viene dalla natura stessa dell’apprendimento in tutti i campi, nella vita e nella scuola. Una maniera sicura per provocare un bisogno e un percorso di apprendimento è partire da un innesco cioè una provocazione costituita da un oggetto, un caso, una situazione che reclamano una spiegazione, o da un problema che richiede una soluzione.  Diamond, nello spiegare la conquista spagnola del Perù, partiva da una domanda: come fu possibile che poche centinaia di soldati spagnoli distruggessero un impero pluricentenario? La riflessione che viene in mente è: ma perché la storia non viene studiata anche con questo tipo di percorso accompagnando la tradizionale spiegazione generale dei fenomeni, la sistemazione delle cronologie?

Ma qui il discorso si allarga e bisogna fare un passo avanti. La risposta alla domanda di apprendimento può avvenire dalla lettura di una narrazione-spiegazione, come nel caso dei libri citati. Ma perché non lasciare che siano gli studenti stessi, con un percorso attivo di indagine e scoperta, a costruire le loro spiegazioni?

Questo è abbastanza ovvio e naturale per le discipline scientifiche e tecnologiche, che hanno nell’indagine, nell’analisi, nel progetto e nel problem solving i loro metodi costitutivi. Anche l’uso apparentemente irrazionale dell’intuizione (la mano sinistra) ne fa parte.  Purtroppo in esse il momento del percorso è quasi sempre assente e prevale lo studio manualistico e versativo del “tutto già sistematizzato”. Un importante esempio di percorsi attivi  di apprendimento che partono da un innesco si trova nel Piano di ricerca e formazione per una didattica innovativa in ambito scientifico-tecnologico nella scuola secondaria di primo grado di cui si è già parlato in questa rivista[2]

Torniamo però alla storia. Non possono gli studenti, partendo, ad esempio, da un oggetto visto in un museo, attivare un’indagine sul significato, il modo di uso, il contesto in cui quell’oggetto era nato? Sto sostenendo, in sostanza, che la laboratorialità, cioè un approccio all’apprendimento che comprenda il confronto con i dati, i fatti concreti, non riguarda solo le scienze, ma tutte le discipline.

Viene in fine naturale introdurre un’altra considerazione collaterale, ma importante. Le tecnologie dell’informazione mettono a disposizione formidabili strumenti di informazione, analisi e sintesi comunicativa  che possono creare un circolo formativo virtuoso in cui le tecnologie stesse sono contemporaneamente mezzo e fine. Da una parte le tecnologie possono potenziare la laboratorialità nella scuola. La quale, dall’altra, è il luogo più qualificato per acquisire quella competenza tecnologica alta, asservita a domande vere, sensate, colte, che solo li possono nascere.

 

 

[1] Anche questo scritto non è una teoria, ma ha, a modo suo, l’andamento vagante di un saggio per la mano sinistra!

[2] Arturo Marcello Allega. L’apprendimento delle STEM al centro dell’autonomia didattica. Education 2.0, 10/10/2018; Arturo Marcello Allega e Filomena Rocca, Curricoli e Progetti. Una visione per il futuro. Education 2.0, 14/11/2018

 

Mario Fierli

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