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Un’altra scuola per evitare la dispersione – di Gian Carlo Sacchi

Pubblicato il: 12/12/2018 11:02:45 -


Alcune riflessioni sulla dispersione scolastica e le strategie per combatterla.
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Le politiche europee contro la dispersione

La dispersione scolastica è il fenomeno sicuramente più indagato non solo in Italia ma, anche senza voler usare le statistiche alla maniera di Trilussa, non si possono negare differenti risultati sulla base degli obiettivi che vengono assegnati al sistema scolastico e delle motivazioni di coloro che lo frequentano.

Si possono considerare dispersi i ragazzi/e che non concludono il percorso di studi intrapreso e gravano economicamente su bilanci pubblici, i quali, se non rientrano in formazione, vanno ad arricchire la truppa dei NEET, acronimo inglese che indica i  giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano e che nel nostro Paese ammontano al 25,7%. Si tratta di soggetti che rivelano una notevole fragilità, incontrano difficoltà nel trovare lavoro e mantenersi il posto, e sui quali si devono concentrare interventi di welfare (reddito di cittadinanza?).

È più facile dunque che si disperdano coloro che hanno collezionato insuccessi e chi ha alle spalle situazioni socio-culturali disagiate, ma sono a rischio anche i cosiddetti superdotati, in quanto non si adattano alla condizione di alunni nella quale vengono a trovarsi e che sono  raramente oggetto di particolare attenzione. I Paesi europei lavorano alla prevenzione del fenomeno, o sostenendo scuole situate in zone marginali  con l’offerta di risorse economiche, di docenti e di maggiore autonomia nella loro gestione, o ponendo attenzione all’azione educativa per contrastare le prolungate assenze dall’attività didattica e favorire la realizzazione del potenziale individuale degli allievi, nonché la loro partecipazione alla definizione del piano didattico, per trovare la scuola a misura di ciascuno. Il modello dal quale anche l’Italia trae ispirazione è la precoce differenziazione degli indirizzi e  il recupero del valore formativo dell’apprendistato.

Nella storia del nostro Paese ci sono tutte le suddette caratteristiche, adagiate però su una tradizione  dominata dalla cultura umanistico-classica (in cui prevale l’impostazione selettiva e si sottostima quella orientativa), che pone tuttora difficoltà di integrazione tra la formazione generale e quella professionale, nonostante le pressioni del mondo imprenditoriale .

I diversi modi per quantificare la dispersione

La dispersione ha cause oggettive, che molti Paesi risolvono ponendo attenzione alla qualità del progetto educativo, e motivazioni soggettive: la scuola crolla nell’opinione giovanile come mezzo di successo personale, in quanto viene attribuito da parte loro più valore a una pluralità di offerte. Però il bisogno di apprendere si definisce solo durante l’apprendimento e una proposta formativa è valida in quanto sa aiutare i giovani a chiarirsi il loro stesso bisogno (Vairetti).

Mentre sono pochi gli alunni che non finiscono il primo ciclo, nel secondo ciclo il calcolo di quelli che si perdono risente di un’ambiguità di fondo: da un lato si tratta della differenza degli iscritti tra il primo e l’ultimo anno e dall’altro si applica un indicatore europeo che considera la quota di giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno solo il diploma di licenza media. Nel primo caso si considera l’uscita dalla scuola, mentre nel secondo vengono compresi anche altri percorsi come quelli della formazione professionale. Si va da una stima un po’ preoccupante del 24,7% (Tuttoscuola) a una più rassicurante (Openplus) del 9,9%, vicina il traguardo europeo del 10%.

Guardando solo al versante scolastico si dovrà far leva sul recupero dell’insuccesso, anticamera dell’abbandono, mentre uno sguardo più ampio ci porterà  alla diversificazione delle offerte per sostenere l’orientamento. Il nodo critico in cui si verifica il massimo dello sbandamento è il primo biennio delle superiori, che coincide con la scelta sociale e politica dell’obbligo di istruzione. Sono gli istituti professionali ad avere il tasso più elevato di dispersione, e senza  un efficace rapporto con i centri regionali si fatica a rendere stabile un’area nella quale potenziare la qualità della formazione in relazione ai cambiamenti del mondo del lavoro.

Combattere la dispersione con politiche scolastiche di indirizzo ed orientamento

Una scuola che seleziona tende a disperdere, una che indirizza ricerca prima di tutto la prospettiva occupazionale. Le due cose insieme rischiano invece di provocare un corto circuito nella didattica, che disorienta, richiede il doppio delle risorse e non assicura il raccordo con le attività lavorative.

Il perdurare del fallimento formativo comporta una perdita economica per l’intero Paese in termini di PIL e di coesione sociale e territoriale. La scuola con le sue sole forze non può modificare del tutto una realtà caratterizzata da forti sperequazioni tra diverse parti del Paese , che, nel suo complesso, mostra  bassa mobilità educativa e incapacità a  svolgere il ruolo di ascensore sociale (OCSE 2016).  È invece necessario aumentare la flessibilità interna alle strutture scolastiche, favorire la costituzione di reti locali e patti di corresponsabilità che vadano incontro ai bisogni degli alunni e delle diverse realtà, anche attraverso il prolungamento degli orari di funzionamento delle stesse per essere punti di riferimento all’intera comunità. Bisogna far leva sulla valorizzazione delle relazioni esterne  e  sulla loro reale autonomia, a tutt’oggi ancora limitata alla sola componente didattica. Al sistema nazionale rimane il compito del monitoraggio sui percorsi di crescita e sui risultati. La classe deve essere vissuta come comunità di apprendimento, luogo di promozione dei diritti e delle responsabilità: confronto tra pari, condivisione delle regole, comunicazione efficace, conoscenza interculturale.

L’attenzione alle risorse del territorio

Il contrasto alla dispersione deve avvenire proprio in quanto si accentua la domanda di diffusione della cultura nella società civile e nei progetti di sviluppo, ed è richiesta sempre maggiore qualità all’istruzione per evitare il rischio che si amplifichino gli squilibri fra gruppi sociali,  fra le diverse aree del Paese o fra quelle interne alle stesse realtà urbane. Infatti, nelle scuole superiori c’è abbandono anche nelle zone fortemente industrializzate, in quanto negli studenti si manifesta senso di inadeguatezza rispetto a i una scuola dalla quale ricevono frustrazioni e insuccessi.

Non si può fare a meno di considerare in modo integrato tutte le opportunità formative che un territorio esprime, messe in atto da strutture autonome e partecipate. La scuola, dal canto suo, deve riconsiderare il problema delle bocciature a beneficio di un percorso didattico più flessibile e personalizzato, superando un sistema di valutazione non più adatto a una didattica per competenze.

Alle ripetenze espresse in modo sommativo si deve preferire la certificazione qualitativa delle competenze stesse, anche al fine di una migliore comunicazione e riconoscimento sul piano professionale, sociale e interculturale, ed è necessario stabilire  l’equivalenza dei risultati tra i vari indirizzi formativi, così da uniformare anche le rilevazioni sulla  dispersione, nonché le ricadute sul piano delle politiche necessarie.

I ritardi nei percorsi formativi non migliorano le prestazioni, ma si avvicinano, com’è noto, alla dispersione,  mentre e risorse impiegate per far ripetere potrebbero essere usate più propriamente per scoprire attitudini ed elaborare un’idea diversa di scuola.  Questa idea dovrebbe far leva sull’orientamento: manca spesso nei giovani la corrispondenza tra la percezione della professione per la quale si studia e la realtà.

Lo sviluppo  dell’identità professionale consente di percepire la formazione come qualcosa di significativo, che favorisce una maggiore motivazione e disponibilità all’apprendimento, caratteristiche da mantenersi dopo che si è avviato il percorso lavorativo, o di fronte alla necessità di un’eventuale riconversione. In tal modo la formazione diventerà una leva non solo funzionale, ma un valore in sé, condiviso, che permette di costruire il capitale umano di ciascuno.

Gian Carlo Sacchi

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