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“Viva la libertà!”

Pubblicato il: 14/11/2014 11:17:01 -


Sommosse nella storia di ieri e di oggi: la visione di una giovane liceale.
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“Viva la libertà!”, urla il popolo inferocito nella piazza di Bronte, “Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! Ammazza!”. Un’insurrezione contadina che sfocia in conseguenze tragiche, una rivendicazione di libertà dalla secolare miseria comune che si manifesta nell’intera sua violenza e crudeltà, quella che viene riportata con un estremo e crudo realismo dal Verga, attento e fedele cronista degli eventi, talora sconvolgenti, lui contemporanei. Ed è proprio grazie allo sguardo lucido dell’autore nei confronti dei fatti, alla sua obiettività espositiva, al suo apparente “non coinvolgimento” emotivo, che il lettore è chiamato a rapportarsi direttamente col testo, testo “macchiato” di lacrime e sangue, di risentimenti e sopraffazioni… Pochi elementi e il giusto è mutato nel torto: dei contadini ormai insofferenti nei confronti della loro condizione, vogliosi solo di un pezzo di terra, di un luogo privato in cui poter lavorare liberi, in pace, lontani da vessazioni, incitati per di più dalle promesse di Garibaldi, stanchi ormai di ottenere promesse su promesse ma mai fatti, decidono di farsi giustizia da sé, a suon di scuri e falci si scagliano contro tutto e tutti, passando inevitabilmente dalla parte del torto. Le loro sono rivendicazioni più che giuste, ma perché decidere di appellarsi a una violenza a tal punto atroce? Perché far divenire la libertà, diritto inalienabile di ciascuno, motrice di rivolte, guerre, discordia reciproca?

I contadini di Bronte si sono ribellati a un sistema dal quale ritenevano non si sarebbero mai potuti emancipare tramite bontà e belle parole, sistema al quale qualcuno, in un passato remoto, ha provveduto a dare vita, rendendo l’umanità succube di un circolo vizioso senza fine. La natura rende gli uomini liberi, rende gli uomini eguali l’un con l’altro, Dio è “padre di tutte le genti” e come tale vuole la libertà di ciascuno, sottolinea con fermezza Manzoni nei versi della propria lirica “Marzo 1821”. Verissimo, ma l’uomo sembra non comprendere ciò… Egli, pieno di sé, convinto di essere stato creato dal Padre quale essere “eccezionale”, come possiamo a buon diritto ritenere di fatto che sia, pretende di godere simultaneamente di pieni diritti, di piena libertà, e di poter negare i medesimi diritti, le medesime libertà, a uomini lui pari, ponendoli in un illegittimo gradino di inferiorità. Il debole è stato così costretto a soccombere alle ingerenze del più forte, lo insegna la storia: le prime comunità hanno iniziato a espandersi, a inglobare comunità vicine e altre ancora, sino a dare vita a regni e poi imperi con nuove brame di potere, di ricchezze, si pensi solo alla politica imperialistica adottata senza rispetto alcuno delle genti ritenute “barbare” dal glorioso Impero Romano.

Ma ormai la storia è storia: se i nostri progenitori non avessero ritenuto azione giusta ignorare il precetto di fratellanza, probabilmente noi non possederemmo neppure il concetto di libertà, non essendo venuti mai a contatto con il suo opposto, la sudditanza, non potremmo mai comprendere a pieno il grande dono noi concesso dal vivere in un paese oggigiorno tanto criticato quale l’Italia il quale, nonostante le miriadi di invasioni, privazioni, domini, beffe subite nel corso dei secoli, ha avuto la forza di rinascere, di ribellarsi, di lottare, a favore della comune libertà, dell’interesse del popolo italiano. Ecco dunque ritornare ribellione, lotta, poiché, triste ma obiettiva realtà, a violenza non si può rispondere in altro modo se non con la stoica accettazione o con un’ulteriore, e di sovente più forte, violenza. Così talune genti si sono adeguate al dominio straniero, andando a identificarsi nel corso del tempo in esso, conformandosi alla nuova realtà; altre, dopo una serie di appelli inascoltati e di “giuri traditi”, hanno impugnato le armi e respinto lo straniero. Così si è andato a delineare lo scacchiere territoriale, la suddivisione in Stati, oggi parte integrante della nostra concezione geo-politica.

Vi è di fatto un campo, il campo politico, in cui valgono tutte le leggi tranne le leggi morali, un campo edificato dagli uomini stessi per soddisfare la propria sete di accrescimento. Inutile ricercare in esso eticità e morale: è una realtà a se stante, e nessuno può meglio ricordarcelo di Machiavelli, primo teorizzatore, dell’esistenza di un’universale scienza politica. Capi di governo d’ogni tempo si sono attenuti a inseguire i propri singoli interessi, gloria, fama, a discapito dei propri concittadini e dei popoli circostanti, rendendo il mondo un campo di battaglia aperto, in cui difendersi o perire. E come difendersi?
Machiavelli si appella alla venuta di un principe nuovo, che sappia essere scaltro e duttile, simulatore e dissimulatore, uomo ma anche bestia, che conduca finalmente l’Italia ad essere libera dallo straniero, libera dai barbari. Machiavelli sa con certezza quanto l’Italia sia “pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli”, quel che non sa è che per avere una vera e propria unificazione di un suolo italiano libero si dovranno attendere ben ulteriori 300 anni, 300 anni di particolarismi e pluralità di domini, portatori di altrettante relative lotte, e che, sebbene riuscirà a riunificarsi sotto un’unica bandiera, questo non le toglierà di dover essere nuovamente lacerata dall’avvento di ben due Guerre Mondiali nelle quali sarà messa nuovamente in discussione la sua stessa libertà.

Rivendicare a parole i propri diritti risulta essere del tutto vano.
Vi è chi, in linea con i propri principi e con la propria coscienza, non si è voluto piegare a questa triste verità. Sono personaggi mossi da profondi ma purtroppo idilliaci ideali, personaggi il cui nome è rimasto impresso nelle pagine della storia a livello mondiale per il loro ammirevole coraggio, considerati martiri poiché accompagnati, guarda caso, da una fine perennemente tragica. “Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina. (…) Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima”, celebri le parole declamate nel 1965 da Martin Luther King al cospetto di una folla di circa 250 mila persone, in prevalenza di colore, radunatesi a Washington per prendere parte alla più grande protesta per i diritti civili mai avvenuta. “I have a dream”, “Io ho un sogno”: un sogno quello di Luther King, un sogno quello di poter praticare e predicare la “non violenza” seguendo l’attività pacifista promossa da Gandhi, per porre definitivamente fine alla segregazione razziale, alla discriminazione di razza. Gandhi, Martin Luther King, considerati personaggi scomodi, pericolosi portavoci della comune uguaglianza e libertà, proprio a causa alla loro azione rivolta sempre verso il bene, convinti di poter illuminare gli animi di persone vogliose tutt’altro che di essere illuminate, sono stati facili bersagli di assassini che hanno vanificato, con qualche colpo di pistola, anni e anni spesi nella speranza di poter redimere le umane genti. La popolazione di colore dovrà continuare a rivendicare l’applicazione effettiva dei diritti riconosciuti nella Dichiarazione Universale, ardua rivendicazione, se si considera come spesso, al giorno d’oggi, ancora, e non di rado, si assista a forme di discriminazione razziale rilevanti, pur se di certo attenuate rispetto al passato.

Martiri sono anche coloro che, in mancanza della possibilità di poter operare in maniera virtuosa, in mancanza delle forze e degli alleati necessari per attuare un’efficace ribellione, optano per la via del così detto “suicidio eroico”, già annoverato nella tragedia greca delle origini quale effettiva possibilità umana di potersi sottrarre alla ruota della fortuna, rivendicando la libertà del singolo sulla sorte. Ma non è forse la vita stessa un diritto pari alla libertà, inalienabile per ciascuno? Perché dunque rinunciare all’una, comportando inevitabilmente una rinuncia all’altra? “Libertà va cercando, che è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”, sono le parole con cui, nel primo canto del Purgatorio, Virgilio si rivolge a Catone, custode del Purgatorio stesso. Catone è infatti l’uticense, quel Catone morto suicida ad Utica per non sottostare al governo di Cesare. Il suo gesto è considerato simbolo di rettitudine e coraggio, exemplum per i posteri: egli rinuncia alla vita, quanto di più caro vi sia al mondo, rinuncia agli affetti, per insegnare quanto la libertà sia il bene più prezioso. Ma quale vantaggio il morire di una persona? Ammirevole il suo gesto, ma non si può di certo asserire come egli, in tal modo, abbia contribuito a far comprendere agli uomini l’inutilità dell’orrida guerra, della mancanza di libertà perpetrata in tal modo verso i popoli conquistati.

Chi sa se gli uomini, dopo tanto sangue versato, sono giunti veramente a capire quanto “il loro destino è legato col nostro destino (nostro quale umanità), (…) che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà!”, come sosteneva in tempi non ancora maturi Luther King?

Nel ‘900 si è parso non comprendere ciò… Non una, bensì DUE guerre hanno sconvolto l’intera realtà europea a distanza di soli venti anni l’un dall’altra! Gli orrori della guerra sono così descritti da Quasimodo in “Giorno dopo giorno” nel 1947: “E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti nelle piazze, (…) al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo?”. Versi crudi, al pari di quelli veristi di Verga, versi che devono aiutare a comprendere… Il poeta si sente impotente, si chiede quale sia il ruolo della poesia stessa al cospetto di dolori sì incommensurabili. La risposta è negativa: i poeti non possono far altro che tacere, appendendo le cetre, simbolo del loro canto, alle “fronde dei salici”, simbolo per eccellenza del pianto, d’ingiusta sofferenza. Ma in realtà il poeta non ha taciuto, ha composto i propri versi, inserendovi una captatio benevolentiae tendente a far meditare: il primo sentimento suscitato nel lettore al cospetto di versi sì scarni, impietosi, è la ripugnanza.

Siamo noi oggi nel ventunesimo secolo, non nel ‘900! Quelle sono realtà esistite, passate, ma da non dover essere dimenticate! Ecco che abbiamo poeti, scrittori, artisti, pronti a testimoniarci, con le loro opere, i drammi da loro stessi vissuti. Siamo realmente in una condizione privilegiata, noi, uomini e ragazzi di oggi. Non che la libertà sia eguale in ogni luogo, ma la condizione dei tempi è decisamente più prospera e a nostro vantaggio. Difendiamo la libertà nostra e dei nostri fratelli nel mondo! Dobbiamo essere grati di vivere in un’epoca e in un paese in cui per libertà s’intende poter uscire il sabato sera, possedere le chiavi di casa, avere un motorino o una macchinetta a soli 14 anni. Ricordiamo il passato, viviamo il presente, costruiamo un futuro migliore, in cui la Libertà rappresentata da Delacroix nel proprio celebre dipinto non sia MAI PIU’ una figura irreale, al capo di un popolo spietato, indifferente alla morte circostante, ma sia una dea benevola, fonte di concordia reciproca, che si erga fiera tra bambini che giocano, non che impugnano armi, tra uomini che conversano uniti da amore e rispetto, indipendentemente da cultura o nazionalità. Un mondo nuovo, in cui “Viva la libertà” divenga un grido di gioia, capace di ripagare i millenni di sangue versato dai nostri antenati, speranzosi di un futuro di pace.

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Lidia Maria Giannini

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