Archiviata un’altra maturità
Riflessioni e proposte per migliorare l’esame di stato, che andrebbe rivalutato tenendo conto del quadro europeo.
È il tormentone dell’inizio estate; ogni anno tiene banco sulle pagine dei giornali con le varie statistiche e con i commenti perlopiù delusi degli operatori.
L’esame di stato finale del secondo ciclo dell’istruzione, nella vulgata veniva chiamato di maturità, pensando che fosse una svolta nel processo di crescita, un traguardo, un ingresso in società. Oggi tutto questo viene fatto vivere già nel percorso scolastico. Tra gli obiettivi della scuola, infatti, ci sono sempre più elementi di dialogo sociale diretto, attività nelle aziende, scambi internazionali, al punto che si fatica quando si arriva in fondo a capire se i risultati conseguiti sono il frutto del lavoro della scuola o di altri ambienti. A vedere tutto quello che è successo nella vita dei giovani nel corso degli studi sembra che l’esame sia un intralcio, riporti a un apprendimento formale, fatto soltanto di accumulo di conoscenze, rispetto a esperienze molto più interessanti che peraltro hanno già fatto prefigurare sbocchi futuri.
Le magagne che ogni anno vengono denunciate dai commissari si riferiscono perlopiù ad aspetti didattici, che non sarebbero così tanto evidenti se si rispondesse in maniera diversa al significato che viene attribuito a tale prova. La prima domanda, dunque, è relativa al valore legale o meglio sociale che viene attribuito al titolo finale. È inutile rievocare discussioni note, si sa molto bene che questo traguardo è ampiamente svalutato e chi deve riconoscere le competenze preferisce costruirsi in proprio gli strumenti: test, stage, curriculum, oggi in grado di superare i confini nazionali e seguire disposizioni europee.
Tutte le cerimonie di fine corso possono essere rifinalizzate se anziché guardare a chi certifica, la burocrazia, si guarda a chi riconosce. Questo non vuol dire essere funzionali a chi viene dopo, ma ad esempio presentare dati ed esiti leggibili in modo personalizzato e analitico al posto di un generico diploma di… Ci si lamenta che gli studenti non sanno fare la tesina, ma per essere “autentica” deve avere alle spalle esperienze concrete, magari valutate con crediti.
Nell’ottica della longlifelearning si dovrebbe privilegiare il processo, che è sempre incrementabile, al posto di una terminalità più o meno definitivamente raggiunta, e il sistema valutativo dovrebbe essere quello dei crediti, del miglioramento continuo e non quello dei voti che quantificano il risultato finale.
Le prove nazionali hanno più un valore statistico e per questo devono rimanere a dare conto dell’andamento degli apprendimenti, ma non interferire con i risultati individuali che restano contestualizzati nell’esperienza formativa.
Ci vuole un bilancio del percorso, un portfolio delle competenze, che lo studente possa costruire autonomamente (autovalutazione) o con l’aiuto del docente, che resta formatore e non si trasforma in commissario.
Il fallimento della terza prova, che avrebbe dovuto verificare l’elemento di flessibilità del curricolo, dimostra che il nostro sistema preferisce essere scavalcato che innovarsi. Semmai si arrivasse al doppio canale tedesco, nella nuova Costituzione le premesse ci sono nell’istruzione e formazione professionale, si può verificare un parallelismo valutativo che arriva fino al grado terziario. E se si vuole evitare l’inutile e deprimente confronto tra i risultati dei licei e quelli degli istituti professionali sarà bene cambiare gli strumenti di valutazione, tentativo già in atto tra la qualifica triennale e il diploma finale di questi ultimi.
In passato ogni governo ha provato a cambiare l’esame di maturità, più di recente la cosa è stata dimenticata anche nel brulicare d’iniziative riformatrici del ministro Giannini. Cosa si deve intendere? Che si possa andare avanti così tranquillamente forse no, ma che ci si debba almeno allineare con l’Europa, anche per facilitare la maggiore circolazione delle competenze, senza tante complicazioni burocratiche.
Una cosa importante viene segnalata: i giovani maturandi trovano più difficoltà nell’orale che nello scritto. Il contrario di ciò che accadeva agli albori dell’istruzione di massa, quando ci si esprimeva oralmente alla bella e meglio perché non si possedevano gli strumenti linguistici formali. Oggi che succede? Manca il pensiero da rielaborare ed esprimere o troppi social metwork?
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Gian Carlo Sacchi