Riforma del secondo ciclo: avanti adagio, quasi indietro (2)
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Se fosse applicabile una metafora automobilistica si potrebbe dire di una marcia avanti, l’istruzione tecnica, una indietro, quella liceale, e una in folle, l’eterno indeciso ruolo dell’istruzione professionale.
(segue)
LICEI
Se si eccettuano i licei artistici le cui sperimentazioni in questi anni hanno agito trasversalmente anche sugli istituti d’arte e il timido avvio dei musicali e coreutici, per i quali rimane una certa ambiguità nella riforma dei Conservatori musicali, per tutto il resto si rileva una notevole marcia indietro. Dire che si vuole tornare a Gentile è far torto a una visione complessiva della scuola dell’epoca, mentre siamo di fronte a epigoni gentiliani che diminuiscono tutte le risorse orarie e di personale volendo far credere che questo possa far ritornare in qualche modo alle origini, senza pensare, anzi forse volendoli proprio abolire, ai passi che i licei hanno compiuto in questi decenni per il miglioramento dell’offerta formativa, il loro contributo alla modernizzazione dei saperi, a un miglior rapporto tra scuola e territorio attraverso l’aumento, come si è detto, della licealità diffusa.
Oggi il messaggio sembra essere “differenziazione”, al punto che anche i documenti ministeriali assumo definizioni diverse con l’istruzione tecnica e professionale: “indicazioni nazionali” per i licei, pensati per il canale più vicino alla tradizione culturale nazionale, mentre “linee guida” per scuole che sono funzionali per l’appunto al sostegno della dimensione professionale locale. Dividere, dunque, fin dal primo anno del secondo ciclo, pur sapendo che dispersione e orientamento sono le sfide non solo del successo formativo, ma di un più generale sviluppo economico-culturale del sistema.
Indirizzi linguistici, socio-economici, delle scienze applicate (ex liceo scientifico-tecnologico), fanno capire come si è abbandonata la necessità che le lingue, l’economia e la tecnologia fossero sempre di più parte appunto di questa licealità diffusa, in quanto presenti, in via sperimentale, anche negli istituti tecnici o viceversa, aprendo, come era per esempio nelle intenzioni della “commissione Brocca”, campi disciplinari nuovi per sostenere di più per tutti le competenze generali e i nuovi saperi, senza rinchiuderli a livello di indirizzi, operando così una maggiore selezione sociale nella scelta degli stessi.
I licei iniziano dopo la terza media, senza pratiche orientative e riferimenti all’innalzamento dell’obbligo di istruzione per tutti, il che comporterebbe per l’intero biennio del secondo ciclo l’applicazione della didattica per competenze nell’ottica degli assi culturali nonché di quelle di cittadinanza europea, come prevede il DM 139/2007.
Non dimentichiamo che anche nell’istruzione liceale la dispersione inizia a preoccupare, ma se per alcuni questi fenomeni sono la “naturale”conclusione di scelte sbagliate o di incapacità, per altri l’idea di costruire dei complessi scolastici polindirizzo, i “campus” di cui parlava la riforma Moratti, ma che già erano stati introdotti in diverse programmazioni regionali, potevano rafforzare la predetta formazione generale per tutti, cercando poi di far emergere le scelte di ciascuno e la possibilità di riorientarsi.
Insomma qui non si tratta di preferire l’essenzialità dei contenuti rispetto a programmi prolissi difficili da interpretare, ma di valutazioni politiche diverse dai due governi precedenti, uno di centro-destra e uno di centro-sinistra, a cui la storia darà il suo responso.
I PROFESSIONALI
Una situazione sostanzialmente bloccata, una marcia in folle appunto, riguarda ancora una volta il riordino degli istituti professionali e il governo di quella realtà che sta attorno a un settore di importanza strategica per il nostro sistema, a più diretto contatto con le imprese che hanno bisogno di sempre maggiori competenze non solo professionali e con l’Unione Europea che ha fatto di un più stretto rapporto tra formazione e lavoro l’asse portante dello sviluppo economico e della cittadinanza attiva.
Non si può qui fare la storia di un groviglio di norme che nascondevano una dicotomia politica e pedagogica circa il ruolo del lavoro nell’adeguatezza professionale e nella promozione sociale, tra una visione più scolastica attribuita ai compiti dello Stato e a una più lavorativa che veniva esercitata da centri di formazione e aziende.
Tutta la legislazione costituzionale parla di istruzione… e formazione professionale attribuita esclusivamente alle regioni, ma gli istituti professionali rimanendo saldamente statali oggi si possono trovare identificati con i tecnici (quinquennali) oppure in conflitto con gli enti accreditati dalle regioni, e che solo in via sussidiaria possono rilasciare qualifiche triennali.
Insomma nel passato si è teso a una maggiore scolasticizzazione (progetto 92 et similia), oggi all’opposto si vorrebbe una maggiore flessibilità; i professionali hanno svolto una notevole funzione sociale quando il disagio colpiva soprattutto le tasche delle famiglie che vedevano nella scuola una forma di riscatto, attualmente si trovano di fronte a un’utenza a disagio personale e vengono colpiti più degli altri dall’abbandono. In questa situazione il nostro sistema avrebbe bisogno non tanto di aumentare i canali in competizione fra di loro, ma di una maggiore coesione sociale e di un’integrazione fra i percorsi, in vista semmai del decentramento del governo dell’intero sistema scolastico alle regioni. A poco servirà utilizzare l’apprendistato per diminuire la dispersione, senza contare tutti i problemi circa l’inserimento all’interno dell’obbligo di istruzione e l’affidamento di tale pratica formativa direttamente alle imprese. Il non controllo dei flussi formativi andrà ad aumentare quell’11% e più di soggetti di cui si parla da anni nelle ricerche sul mercato del lavoro che verso i 18 anni, ma così succederà anche prima, scompaiono dai radar della società.
Il nuovo titolo quinto della Costituzione assegna allo Stato altri compiti, quelli com’è noto di traguardare il sistema dal punto di vista dei diritti, dei principi generali e dei risultati, in modo da permettere ai territori di occuparsi dell’efficienza e della qualità dei sistemi locali. In assenza di tale quadro si notano tentativi di applicazioni regionali che rischiano l’ulteriore frammentazione, mentre la presenza di una cornice istituzionale chiara (accordo stato-regioni) potrebbe consentire l’espressione vera dell’autonomia dei territori. Non si può andare avanti all’infinito mediante intese regionali (sono più di dieci anni che vengono richiamate) viste come compromesso nella difesa dei rispettivi poteri di gestione.
Anche la riorganizzazione degli indirizzi è un palliativo teso a conservare lo status quo, quando dovrebbe essere la definizione degli standard professionali, e non solo, la strada maestra per costruire percorsi che tendano all’unità degli esiti attraverso l’autonomia dei progetti.
Molte indicazioni nelle linee guida nazionali provengono dagli istituti tecnici, ma è il pensiero di fondo che conta: un’ulteriore divisione verso scuole di “applicazione”, il che assomiglia di più all’antico negotium che non a una realistica e attuale interpretazione del dato pedagogico e professionale.
Qui c’è una grande scommessa sulla didattica, perché la vera sfida per il futuro sta nella migliore qualità a fronte delle maggiori difficoltà. C’è bisogno di eccellenze proprio in questo settore e di grossi e convergenti investimenti, a cui per esempio il Fondo Sociale Europeo potrebbe dare un importante contributo specialmente nelle regioni del sud.
I due punti più interessanti sono da un lato una sintesi peraltro non nuova e che in un’ottica scolasticistica fin qui è stata scarsamente considerata, sui “laboratori tecnologici ed esercitazioni” e la notevole valorizzazione dei tirocini aziendali, ancorché diffusi in altri indirizzi, come elementi non solo di passaggio alla vita attiva, ma veri e propri ambienti di apprendimento.
E DAL LATO DELLA DOMANDA?
Se confrontiamo recenti indagini sulle scelte scolastiche e lavorative viene da pensare che la riforma del secondo ciclo sia avvenuta in modo molto autoreferenziale. Da una parte infatti sembra che i nostri giovani tornino a fare gli operai e gli artigiani, anche in mansioni non qualificate, in misura superiore ad altri Paesi europei. Dal 2005 al 2010 le imprese guidate da giovani con meno di 29 anni sono diminuite del 18,4% (CENSIS) Si potrebbe parlar del calo delle iscrizioni all’università ecc.
Per il prossimo anno scolastico le scuole preferite sono i licei, il 3% in più dello scorso anno, lo 0,4% in più per i tecnici e l’1,8% in meno per i professionali (MIUR), mentre l’indagine dell’Unioncamere continua a ripetere che il fabbisogno di professionalità riguarda i tecnici con sempre maggiori competenze di studio.
Sembrerebbe che la nostra macchina abbia imbroccato una strada diversa e per giunta abbia poca benzina per intravvedere grandi traguardi. Senza voler rievocare inutili determinismi sta di fatto che abbassare l’età della scelta e instaurare una rigida divisione tra i canali non funziona, almeno in fase di avvio della riforma; abbiamo dimenticato “l’orientamento” di cui non si parla più nemmeno nella scuola secondaria di primo grado, perché forse non è ritenuto importante accompagnare con pazienza i/le giovani a compiere le loro scelte: c’è chi ha già scelto per loro, ma i fallimenti sono sotto gli occhi di tutti e in costante aumento.
Gian Carlo Sacchi