Si può migliorare il sistema scolastico attraverso i test?
I test assumono un significato crescente nei sistemi scolastici di molti Paesi, ma l’impatto in termini di miglioramento effettivo delle prestazioni degli alunni è oggetto di dibattito e di studi molto approfonditi.
L’utilizzo di test standardizzati per rilevare i risultati scolastici è pratica diffusa in molti Paesi sviluppati. Negli ultimi anni sono però emerse nuove modalità di impiego dei test; non si tratta più solamente di verificare la preparazione individuale per un esame o di valutare in generale lo stato del sistema educativo (come nel caso della rilevazione Ocse Pisa). L’aspetto nuovo è che il risultato del test assume un rilievo strategico, diventando esso stesso il motore del processo di miglioramento della scuola. In che modo? Attraverso la divulgazione dei risultati all’opinione pubblica e l’assegnazione di incentivi o sanzioni alle scuole e ai docenti che hanno ottenuto i risultati migliori o peggiori.
Secondo i sostenitori di questo approccio (definito outcome driven, o performance based approach) in questo modo si dovrebbero determinare almeno tre ricadute positive:
– l’attenzione dei docenti viene concentrata sugli elementi basilari del curriculum;
– la scelta delle famiglie riguardo alla scuola viene sostenuta da una maggiore informazione sulle sue prestazioni e viene introdotta una maggiore competizione anche all’interno del sistema pubblico;
– l’assegnazione di incentivi per le scuole migliori, e di supporti e/o sanzioni per le scuole in difficoltà (nei casi più gravi arrivando fino alla chiusura della scuola), rappresenta un ulteriore elemento per spingere docenti e presidi a cercare il miglioramento; in alcuni casi la valutazione delle prestazioni attraverso l’analisi dei risultati degli studenti riguarda anche i singoli docenti, con i relativi effetti sulla loro carriera.
Questa è la filosofia che è alla base dell’Education Reform Act, varato in Inghilterra nel 1988 e del No Child Left Behind Act, varato nel 2001 negli USA. In particolare l’obiettivo finale del No Child Left Behind Act è che entro il 2014 nessun alunno esca più dalla scuola senza raggiungere almeno i livelli basilari stabiliti dai singoli Stati. Nel caso inglese anche l’Ispettorato (l’OFSTED) gioca un ruolo molto forte, producendo rapporti di ispezione molto approfonditi e resi pubblici, elemento che manca invece nel caso americano, che si basa solamente sul confronto tra i risultati dei test.
Anche in Italia i richiami a questa strategia stanno diventando sempre più frequenti; basti pensare al successo delle proposte di Abravanel e ai molti che le hanno riecheggiate. Come spesso accade nel nostro Paese sostenitori e oppositori si sono rapidamente schierati; in pochi però hanno tratto frutto dalle analisi, molto serie e rigorose, che sono state effettuate in questi anni negli Stati Uniti e in Inghilterra sui punti di forza e di debolezza di questo approccio, e sull’impatto che ha prodotto sul sistema. Che cosa emerge, in estrema sintesi?
Il problema di fondo riguarda la consapevolezza che i risultati degli alunni sono fortemente condizionati dal livello socio-economico e culturale della famiglia e dell’ambiente circostante, e questo inficia qualunque analisi e confronto delle performance tra scuole diverse. Per ovviare a questo problema si adottano due strategie:
– calcolare il valore aggiunto, ovvero il differenziale tra le prestazioni ottenute a due test consecutivi; trattandosi di un valore relativo non dovrebbe risentire di questo problema; negli Stati Uniti si adotta largamente questo metodo;
– pesare opportunamente i risultati degli alunni appartenenti alle categorie svantaggiate; questo è il metodo adottato in Inghilterra.
Il limite di entrambi questi metodi è la loro macchinosità e necessità di una complessa macchina statistica. Negli Stati Uniti è stato rilevato come le variazioni tra scuole sono perlopiù adducibili a variazioni casuali, date le ridotte dimensioni dei campioni delle single scuole; questa variabilità rischia di inficiare la misurazione del “progresso annuale” della scuola, che sta alla base del programma americano. La misurazione dei risultati dei sottogruppi sociali ed etnici (richiesta dalla normativa) aumenta questa difficoltà. La mobilità degli studenti (e degli insegnanti) rappresenta un ulteriore problema. Spesso vengono rilevati anche comportamenti opportunistici da parte delle scuole e dei docenti: si va dal concentrare l’insegnamento sulle materie oggetto del test, trascurando le altre discipline, pure importanti, ai più banali suggerimenti agli alunni. In Inghilterra si fa notare come la determinazione di valori attesi inferiori per determinate categorie di alunni rischia di abbassare il livello delle aspettative dei docenti, determinando un effetto Pigmalione al contrario; inoltre l’evidenza dell’impatto del contesto sulle prestazioni della scuola crea allarme tra le famiglie, che non scelgono le scuole con il miglior valore aggiunto, ma semplicemente le scuole che ottengono i migliori risultati.
Anche sull’effettivo impatto sul sistema in termini di miglioramento le opinioni sono discordanti, non vi è assoluta certezza sulla effettiva capacità di test diversi di essere effettivamente equivalenti, e quindi sulla loro attendibilità nel misurare il progresso degli alunni tra un anno e l’altro.
Nonostante queste critiche i due programmi vanno avanti, e questo testimonia che le valutazioni favorevoli superano finora quelle negative; tuttavia sarebbe bene che prima di incamminarci anche noi su questa strada ci rendessimo conto di tutte le implicazioni che comporta e che sono abbondantemente descritte da una letteratura fortunatamente copiosa e scientificamente rigorosa che arricchirebbe il nostro dibattito spesso troppo domestico.
Giorgio Allulli