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I luoghi della formazione

Pubblicato il: 11/02/2010 15:51:00 -


Il caso dei processi formativi dell’azienda Stival, del distretto del mobile di Livenza, pone una questione di fondo: il rapporto tra formazione in azienda e percorsi della formazione tecnica/professionale nella scuola secondaria superiore. Un problema tanto più importante quanto più è attuale proprio la questione della riforma dell’istruzione tecnica/professionale promossa dall’attuale Governo. Un doppio saggio (articolo e PDF) di Eugenio Bastianon.
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A partire dai Distretti del Nord Est.

Conviene partire, ancora una volta, dall’indagine proposta da Sergio Albertini nel volume “La gestione delle risorse umane nei distretti industriali” (ETAS 2002). La realtà che viene qui presentata è il distretto della coltelleria di Maniago (p. 114). Ai lavoratori è stato chiesto da dove derivino le competenze professionali che permettono loro lo svolgimento del lavoro quotidiano. Pur con qualche variazione da azienda ad azienda la risposta è univoca. La larga maggioranza dei lavoratori (circa il 60%) è concorde nell’affermare che all’origine delle loro competenze vi è il lavoro svolto in azienda. È una priorità che non deve sorprendere. Appartiene, in un qualche modo, alla logica dei fatti, al senso di appartenenza all’impresa molto forte in questi lavoratori, al senso stesso della domanda.

La stessa indagine mostra che, al secondo posto tra le fonti di formazione professionale (con una forbice tra il 19% e il 29%) vi è il sapere trasmesso dai colleghi anziani. Solo al terzo posto, del resto insieme con altre esperienze professionali, vi è (tra il 12% e il 19%) la formazione scolastica. Praticamente senza effetti la formazione trasmessa da amici e, ancora una volta, quella prodotta da corsi professionali di aggiornamento.

Il problema.

La marginalità della formazione scolastica rivelata da questa indagine mi sembra questione significativa, sia in fase di formazione iniziale sia come formazione permanente. Ne tento una interpretazione, anche scontando la mancanza di più articolate informazioni sull’età, la scolarizzazione, le qualifiche professionali dei lavoratori oggetto dell’indagine.

Fa problema, a mio avviso, che la formazione delle competenze professionali, anche se più strettamente connesse alla specificità dell’industria della coltelleria, non veda presente l’interazione-integrazione tra l’impresa e le diverse reti – regionali e provinciali – di formazione professionale permanente e continua. Fa ancor più problema, però, che non vi sia alcun accenno alla formazione iniziale, attenta alle competenze di base e trasversali, propria degli istituti tecnici e professionali, sulla quale non possono non fondarsi tutti i percorsi formativi successivi. Solo tale radicamento, infatti, permette anche alla formazione professionale più specifica di avere l’apertura al multiskilling, come indicava l’azienda (coltelleria Ausonia) di cui è stata presentata l’esperienza nel secondo contributo di questa serie.

Come mai, dunque, le tracce della formazione iniziale sono così deboli nella memoria dei lavoratori? Probabilmente perché la scuola stessa non ha posto a tema questo nesso tra competenze di base e trasversali e competenze professionali specifiche, non sviluppando organicamente il rapporto tra sé e il mondo dell’impresa attraverso lo strumento dello stage.

Il progetto.

Qualsiasi progetto di riforma dell’istruzione tecnica e professionale – vedi il Regolamento per il riordino degli istituti tecnici approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri del 28 maggio 2009 – deve, comunque, tenere innanzi tutto conto, almeno per analogia, di quanto la ricerca sulle imprese ha appurato nel campo degli ingegneri:
a) è angusta una formazione tecnica che non abbia anche il respiro ampio e riflessivo della più larga prospettiva culturale, come ricorda Warnecke “Die Fraktale Fabrik”, Berlino 1993 p. 79 ss.
b) è allo stesso modo angusta, annota G. Rebora “I capi azienda. Modelli emergenti di leadership e management nelle medie imprese”, Guerini e Associati DATA, p. 29, la formazione tecnica che non tenga conto delle competenze socio/relazionali, della capacità di lavorare in team, dell’attitudine al nuovo, alla qualità…
c) è necessario che tenga conto dell’andamento concreto del mercato del lavoro e dei nuovi modelli organizzativi delle imprese, che sembrano richiedere sempre più competenze flessibili atte a rispondere alla flessibilità delle imprese stesse, secondo gli auspici di Ausonia e di Cagliano “Evoluzione del mercato del lavoro e nuovi modelli organizzativi” (in “Sistemi & Impresa, n° 3/2005 p. 33).

Di tutto questo, del resto, ci danno ampia testimonianza i progetti formativi delle aziende del Nord est (vedi saggio allegato in PDF).

Le prospettive.

Il tema fondamentale è quello delle competenze e di una definizione di competenza più esigente ed efficace dal punto di vista formativo che l’accezione comunemente diffusa di “saper fare”. La competenza è la capacità di utilizzare le risorse proprie e dell’ambiente per affrontare con successo la varietà e la complessità delle situazioni di studio, di lavoro, della normale vita sociale. Le competenze, in questo senso, sono i saperi elaborati e “metabolizzati” fino al punto di poter essere “investiti” nella soluzione di tutti i diversi problemi, in tutte le possibili situazioni.

Sulla base di questa definizione, possiamo delineare, anche seguendo F. Civelli, D. Manara “Lavorare con le competenze. Riconoscerle, gestirle, valorizzarle”, Guerini e Associati, Milano 2002, p. 70 ss, un modello di sistema delle competenze articolato in tre aree:
• area delle attitudini e delle competenze socio/relazionali
• area delle competenze trasversali/di base
• area delle competenze tecnico/professionali

Esaminiamo brevemente le tre aree:
a) l’area delle attitudini e delle competenze socio/relazionali:
• propensione al nuovo e alla qualità
• propensione al miglioramento
• capacità di lavorare in team
b) l’area delle competenze trasversali/di base, individuabili nelle competenze comuni a tutte le figure professionali tecniche e che possono essere usate come key-skills generative anche delle competenze tecnico/professionali, secondo L. Berlinguer “La scuola nuova”, Laterza, Bari-Roma 2001, p. 14-69. In quest’area si possono collocare, tra le altre, le competenze:
• matematiche: investire i saperi matematici nella soluzione di problemi tipici delle pratiche professionali…
• informatiche: investire i saperi informatici in attività di gestione e progettuali dell’ICT
• linguistico/comunicative: per sapersi collocare negli orizzonti anche globali delle aziende
• logiche: capacità di sviluppare competenze e di intervenire sui problemi della pratica professionale attraverso inferenze logiche…
• critico/riflessive: saper ripercorrere criticamente la propria pratica professionale in vista dell’innovazione e delle qualità condivise
• professionali comuni in ambito chimico, tecnologico, scientifico…
c) l’area delle competenze tecnico/professionali come capacità di usare e rielaborare personalmente modelli efficaci ed efficienti di realizzazione delle pratiche professionali, in vista, ad esempio, dell’approccio multiskilling. Per formarle occorrono, come osserva giustamente Claudio Gentili nel suo articolo pubblicato in “Education 2.0” il 28 luglio 2009:
• percorsi formativi capaci di orientamento, di far scoprire, cioè, alle persone “le proprie capacità e il lavoro più adatto, spingendo i giovani a scegliere, a orientarsi, a valorizzare le loro vocazioni e attitudini”;
• didattiche centrate su attività condotte in laboratori ben attrezzati, in azienda e in aula,
• tirocini e stage utili ad acquisire le competenze sempre più richieste dalle imprese.

Noi possiamo aggiungere – con Fiorino Tessaro “Metodologia didattica dell’insegnamento secondario”, Armando Editore, Roma 2000, p. 163 ss – l’analisi di caso, l’incident, la simulazione, le strategie metacognitive. È il passaggio definitivo dalla formazione al saper fare, alla formazione, al saper agire, come rileva Michele Pellerey “Le competenze individuali e il Portfolio”, La Nuova Italia, Milano 2004, p. 55, citando Guy Le Boterf, il passaggio dalla routine, dall’esecuzione delle consegne, alla capacità di affrontare l’incertezza, l’innovazione, la complessità, la presa di iniziativa. E questo, come rileva R Cagliano, sembrano chiedere le aziende: persone in grado di “capire” più che di “saper fare”.

La questione dell’obbligo.

Il problema della significatività della formazione scolastica diventa ancora più acuto se si considera l’emendamento approvato il 20 gennaio 2010 dalla Commissione Lavoro della Camera dei Deputati, che permette di considerare luogo utile all’adempimento dell’obbligo scolastico anche i percorsi di apprendistato. È veramente difficile, infatti, considerare risorse umane coerenti con il modello dell’economia della conoscenza e con l’obiettivo dell’Europa come società della conoscenza, definito dagli accordi di Lisbona del 2000, giovani immessi di fatto nel mondo del lavoro attorno ai 15 anni, senza alcuna preparazione di base coerentemente definita e conclusa, e introdotti in percorsi formativi di puro e semplice addestramento. Stival, certo, li sentirebbe pericolosamente inadeguati. Occorre, tuttavia, osservare che, alla fine, questi sono solo i risultati, drammatici, di un problema più volte evidenziato: la crisi della scuola media italiana. Non è possibile dimenticare che una recente indagine (2007) dell’Istituto di Ricerca Internazionale sul Disagio e la Salute dell’Adolescenza ha mostrato che in Italia l’abbandono scolastico si aggira attorno al 20%, contro l’8,5% della Danimarca e l’obiettivo del 10% fissato da Lisbona. Le punte negative si collocano in Sardegna e Sicilia, con il 30% circa, la situazione più incoraggiante sembra essere presente in Basilicata, con il 12%. Per molti aspetti sembra che la scuola media italiana non abbia ancora imparato la lezione di Barbiana. In realtà, però, a sfuggirle non è solo il margine basso della sua platea di utenza. Secondo l’indagine IEA del 2007 sono tutti gli allievi di terza media, fatta salva l’area del nord est, a ottenere risultati inferiori alla media TIMSS, in modo sensibile in matematica. A sfuggire, dunque, è anche l’eccellenza. Per questo si veda www.invalsi.it. In realtà, come ho già avuto modo di argomentare, la crisi della scuola media trova una significativa cartina di tornasole proprio nelle prove INVALSI di matematica dell’anno scolastico 2007/2008. Il quesito, che secondo molti insegnanti è risultato non poco difficile, chiedeva agli alunni di risolvere il problema di una scala appoggiata a un muro. Si trattava in realtà di un semplicissimo caso del teorema di Pitagora, conosciuto molto bene dagli alunni di terza media. A renderlo difficile è stato il fatto che conoscere il teorema di Pitagora (conoscenza) non significa necessariamente saperlo utilizzare per analizzare e risolvere i problemi, anche banali, della realtà extrascolastica (competenza). La competenza è, cognitivamente, più complessa della conoscenza perché implica la capacità di ripercorrere e rielaborare personalmente le conoscenze, in modo da saperle trasferire e investire in contesti diversi da quello in cui sono state apprese per trasformarle in uno strumento di analisi e soluzione dei problemi che, a cerchi sempre più ampi, sono presenti: a) negli altri ambiti scolastici, b) nella realtà extrascolastica personale, c) nella realtà extrascolastica più ampia. È anche evidente che insegnare conoscenze è diverso dall’insegnare competenze. Per tornare al nostro esempio, se gli insegnanti di matematica avessero pensato di rispondere alle incertezze poste dalla scala appoggiata al muro raddoppiando gli esercizi sul problema di Pitagora avrebbero ottenuto, probabilmente, risultati decisamente inferiori alle attese e all’impegno. Non avrebbero, infatti, fatto gran che per insegnare agli alunni a uscire dal teorema di Pitagora, riconoscerlo nei diversi modi in cui si presenta nella loro realtà e tornare, alla fine, al teorema di Pitagora per risolvere quegli stessi problemi.

La costruzione delle competenze, richiede un processamento dei saperi molto più articolato del, pur necessario, sapere cosa, del saper, cioè, agire una conoscenza nell’ambito di appartenenza. Richiede anche il sapere verso dove, e cioè la capacità di vedere tutti i diversi contesti e casi in cui le conoscenze possono essere investite e il sapere come, e cioè la capacità di usare correttamente e consapevolmente sia strategie di problem solving (analizzare un problema, fare ipotesi di soluzione, applicare un’ipotesi, verificare i risultati) sia di scoperta euristica. Possiamo semplificare dicendo che insegnare competenze significa trasformare la scuola in un centro di ricerca e l’insegnante in un responsabile di programmi di ricerca. L’esperienza sembra dire che proprio in questa trasformazione della didattica, per quanto implica di personalizzazione dei processi di apprendimento, vi è la chiave sia del recupero delle fragilità sia lo sviluppo dell’eccellenza.




Perché la formazione, saggio in PDF scaricabile di Eugenio Bastianon

Eugenio Bastianon

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