Home » Politiche educative » Lo spettro del Regionalismo differenziato arriva in Parlamento

Lo spettro del Regionalismo differenziato arriva in Parlamento

Pubblicato il: 12/04/2023 07:38:20 -


Anche in materia di istruzione si rischiano divari crescenti e rischi per l'unità nazionale nella garanzia dei diritti. 
Print Friendly, PDF & Email
image_pdfimage_print

Il 23 marzo 2023 è giunto al Senato il Disegno di legge “per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione” (AS n. 615). Il Presidente della Repubblica ha autorizzato la presentazione di questo disegno di legge alle Camere dopo una gestazione che ha visto il Ministro per gli affari regionali Calderoli confrontarsi coi Presidenti delle Regioni nella Conferenza Stato – Regioni, a valle di una anticipazione a dicembre, nella legge di bilancio, di alcune norme relative alla procedura da seguire per la fissazione dei Livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali (meglio noti come LEP). Il Parlamento risulterà l’ultimo a dire la sua sul progetto Calderoli, e probabilmente la sua voce avrà ben poco peso, a giudicare dall’ampia maggioranza di cui gode il Governo Meloni, per cui sembrerebbe che, dopo lunga attesa, sia veramente giunto il momento in cui l’infelice formulazione inserita nell’art. 116, comma 3, Cost. dalla riforma del Titolo V, sta per trovare attuazione.…salvo imprevisti, sempre dietro l’angolo nella politica italiana.

La particolarità di questo disegno di legge è che tramite esso, in forza dell’art. 116, si produrrà un’ampia “decostituzionalizzazione formale” dell’assetto delle competenze stato-regioni, che troveranno le regole del proprio riparto, per tutte le Regioni coinvolte dal processo di differenziazione, al di fuori del testo costituzionale, nelle leggi di differenziazione. Tali leggi, che recepiranno le intese stipulate tra Governo e singole Regioni, vedranno il Parlamento esprimersi solo tramite una deliberazione finale, con un’amputazione quindi dei poteri previsti dall’art. 72 Cost., dopo un complesso iter procedimentale, indicato nel Disegno di legge Calderoli,

Cosa ne può derivare? Innanzitutto la progressiva perdita di centralità del testo costituzionale. Anche nel giudizio di costituzionalità il parametro per valutare la legittimità costituzionale delle leggi regionali sarà nelle leggi di differenziazione, mentre il legislatore statale ogni volta che interverrà dovrà specificare d’ora in poi (e si spera si ricordi di farlo) a quali Regioni si applicheranno quali norme contenute nelle sue leggi, andando a verificare i confini delle rispettive competenze nelle diverse nelle leggi di differenziazione, così come tale verifica dovrà fare ogni cittadino che vorrà capire quale norma si applica al caso concreto.

Un rischio ulteriore riguarda poi la futura Legge Calderoli: trattandosi di un disegno di legge ordinaria, una volta approvata, essa avrà una forza “inferiore” rispetto a quella delle singole leggi di differenziazione che, venendo approvate dalle Camere a maggioranza assoluta come richiesto dall’art. 116, comma 3, saranno leggi rinforzate, come tali sottratte a referendum abrogativo e a modifica, se non con la stessa maggioranza e gli stessi adempimenti previsti nel detto comma. Mentre sarà quindi molto difficile modificare le “leggi figlie”, la “legge madre”, la legge Calderoli che disciplinerà il procedimento per la loro approvazione, essendo mera legge ordinaria sarà derogabile ogni volta che il legislatore di turno vorrà farlo. Chi impedirà infatti ad un Governo che avesse fretta, di non prevedere tutti gli adempimenti previsti ora nello schema del ministro Calderoli? E ad esempio di derogare all’art. 7 che prevede la durata di 10 anni della legge di differenziazione e la possibilità di “disporre verifiche su specifici profili o settori di attività oggetto dell’intesa con riferimento alla garanzia del raggiungimento dei livelli essenziali delle prestazioni, nonché il monitoraggio delle stesse”? È questo il motivo per cui nell’ambito della commissione di studio sul regionalismo, nella scorsa legislatura, con altri colleghi avevamo proposto al ministro Boccia l’impiego dello strumento della legge costituzionale per questa importante disciplina, suggerimento oggi rimasto inascoltato.

Come fonte sulla produzione di norme (le leggi di differenziazione), la legge “madre” Calderoli si porrà insomma nella paradossale posizione di essere più debole delle leggi figlie che essa disciplina, al punto che potranno persino cancellarla. Il caos che ne potrà derivare, in termini di certezza del diritto e dell’assetto dei rapporti stato-Regioni si inizia così a prospettare minaccioso all’orizzonte.

Se dal piano procedurale si passa poi ad esaminare il merito delle competenze che saranno trasferite alle Regioni su loro richiesta, il fantasma che incombe, un vero e proprio “monstrum” dal punto di vista ordinamentale, si fa ancora più spaventoso. Si pensi solo alla pessima idea di affidare alle Regioni una materia infrazionabile per definizione come l’ambiente e l’ecosistema”, o delicata come quella dei “beni culturali”. Ma soprattutto si consideri l’incredibile idea di regionalizzare le “norme generali sull’istruzione”, che non solo l’art. 117.2 vuole ora di esclusiva competenza statale, ma l’art. 33 attribuisce alla Repubblica. Come la Corte costituzionale ha chiarito nel tempo, rientrano nella categoria delle norme generali sull’istruzione (e sono quindi “regionalizzabili” tramite l’art. 116, c. 3, Cost. dal 2001), una vasta congerie di temi fondamentali, tra cui: la disciplina dell’obbligo scolastico e degli esami di stato; le norme sulla parità tra istituzioni scolastiche (e i requisiti per ottenere la “parità” da cui dipende il rapporto fra scuola pubblica e privata); quelle relative alle classi di concorso per gli insegnanti; i curricoli didattici vigenti nei diversi ordini di scuole; i criteri di formazione delle classi; l’organizzazione didattica delle scuole primarie; i criteri e parametri per la determinazione degli organici; la costituzione di reti territoriali tra le scuole; l’integrazione degli alunni con bisogni educativi speciali; la formazione permanente; la povertà e dispersione scolastica. Naturalmente venendo regionalizzata anche la materia concorrente “istruzione” si verrebbe a regionalizzare del tutto la programmazione della rete scolastica, così come il dimensionamento degli istituti. Inutile ribadire in questa sede la centralità dell’istruzione per l’unità nazionale e la costruzione della cittadinanza, o lamentare la memoria corta di un legislatore che ha già dimenticato la lezione della pandemia, quando tutti per un attimo sembrarono comprendere l’importanza del sistema nazionale dell’istruzione oltre che del sistema sanitario nazionale.

 

Il cuore e il vero motore di tutta l’operazione è nell’attribuzione alle Regioni che accederanno alla differenziazione di “compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale”, che ora viene previsto nel disegno di legge Calderoli, senza alcun argine che tuteli dall’attribuzione a tale norma del significato più ampio: la conservazione sul territorio della Regione del cosiddetto “residuo fiscale”, che deriva dalla sottrazione tra gettito fiscale regionale e quantum della spesa pubblica investita in quella Regione dallo Stato[1]. Un meccanismo con cui non si potrà che ampliare il divario tra nord e sud circa quanto viene speso pro capite dallo Stato per ogni cittadino, come ampiamente dimostrato negli studi di SVIMEZ, sotto la guida del Presidente Giannola[2].

A tutelare dalla regionalizzazione lo status giuridico ed economico degli insegnanti si potrebbe opporre la perdurante natura di competenza esclusiva statale delle materie di cui alle lettere G (ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato) ed L (ordinamento civile) dell’art. 117, comma 2, Cost., ma non si può credere che, in presenza di una complessiva regionalizzazione della scuola, lo status di chi insegna non ne verrebbe influenzato, quanto meno per il fatto che il mutato contesto non potrebbe che alterare le condizioni di chi lavora in una scuola dal volto sfigurato.

Perché una previsione così pessimistica? Oltre alla norma concernente la compartecipazione regionale al gettito fiscale del territorio, a preoccupare è la determinazione dei LEP che fisseranno il quantum di garanzia dei diritti sul territorio nazionale. Essa è stata affidata a quei DPCM che i cittadini hanno imparato a conoscere durante la pandemia: atti non sindacabili dalla Corte costituzionale, deliberati in tutta scioltezza si potrebbe dire, in questo caso dal Consiglio dei Ministri, con una violazione della riserva di legge prevista nell’art. 117.2 lett. m, ed un procedimento preparatorio affidato ad una Cabina di regia che prenderà come punto di partenza tra gli altri la “spesa storica” dell’ultimo triennio, e chiederà solo un parere parlamentare, senza il quale dopo 45gg si potrà comunque procedere. In un Paese come il nostro, in cui gli asili nido e il tempo pieno si può dire “esistano” come norma solo in alcune regioni, mentre in alcune altre regioni la dispersione scolastica raggiunge vette senza pari nel continente europeo, questa suona come una sentenza di condanna per milioni di bambini italiani, soprattutto a sud.

Rassicura paradossalmente la notizia della nomina di una commissione per la questione dei LEP, composta da una sessantina di autorevoli studiosi: nella migliore tradizione, la commissione di studio è il miglior viatico per prendere tempo e poi abbandonare una questione spinosa, che però attende purtroppo da più di vent’anni di essere risolta, con gravi effetti sull’uniforme garanzia dei diritti sociali sul territorio nazionale. Se così non fosse, e si procedesse invece con tale metodo, andrebbe stigmatizzata la scelta di emarginare le Camere per l’esame di problemi così delicati e fondamentali, in materia sottoposta a riserva di legge dalla Costituzione. Procedere in questa, e magari altre importanti materie, con una commissione “costituente” di nomina ministeriale, per quanto autorevoli possano esserne i componenti, parrebbe una scelta sicuramente preoccupante e che invita a mantenere alta l’attenzione sui processi in atto.

[1] Quanto questo meccanismo aggravi la diseguaglianza è chiarito da S. Staiano, Salvare il regionalismo dalla differenziazione dissolutiva, Editoriale in Federalismi, 7/2023, X.

[2] V. A. Giannola e G. Stornaiuolo, Un’analisi delle proposte avanzate sul “federalismo differenziato”, in Riv. econ. Mezzogiorno, n. 1-2/2018, ma anche G. Viesti, Verso la secessione dei ricchi?, Laterza, Bari-Roma, 2019.

Roberta Calvano Professoressa ordinaria di Diritto costituzionale, Università degli studi Unitelma Sapienza

60 recommended

Rispondi

0 notes
1101 views
bookmark icon

Rispondi