Si può educare alla discussione in rete?

Pochi giorni fa la presidente della Camera Laura Boldrini ha rilasciato a Concita De Gregorio un’intervista, incentrata sulle minacce e gli insulti che quotidianamente riceve attraverso la rete.
A seguito di questo intervento sono state diverse le interpretazioni che, condizionate dal taglio che il quotidiano La Repubblica ha voluto dare all’articolo, hanno scatenato il dibattito online, coinvolgendo giornalisti e blogger italiani (articoli 1, 2, 3). La questione si è infatti focalizzata su tematiche estremamente attuali: da una parte il “diritto alla libera espressione”, i sostenitori del quale desiderano che, semplicemente, le nostre leggi vengano applicate; dalla parte opposta invece chi vuole regole più severe per gestire i comportamenti sulla rete.

La globale diffusione dei social network e l’integrazione con gli smartphone ha infatti permesso a chiunque, ovunque si trovi e in ogni momento, di esprimere in maniera estremamente rapida la propria opinione su qualunque questione; ovvia conseguenza di tale progresso tecnologico è il rischio di digitare un pensiero senza aver riflettuto abbastanza o, controbattendo, di andare alla ricerca della provocazione piuttosto che del dialogo costruttivo con gli altri utenti.
Questa problematica ha colpito, primi fra tutti, i siti d’informazione, che da sempre offrono la possibilità di dialogare e interagire con gli altri lettori.

L’avvento dei quotidiani in rete è stato graduale, ma già a partire dai primi esperimenti statunitensi, che hanno visto in testa The New York Times e The Washington Post, furono proposte delle piattaforme costituite da recensioni, elenchi tematici e, ovviamente, i primi prototipi dei gruppi di discussione.
Tali esperimenti d’integrazione tra un medium “antico”, come il quotidiano cartaceo, e gli strumenti di discussione moderni, in primo luogo il “forum” e successivamente “l’area commenti” ai piedi dell’articolo, hanno rivoluzionato il ruolo dell’utente, concedendogli una partecipazione fortemente attiva.

Dopo 20 anni di sperimentazioni, il web è sempre più spesso descritto come una piazza, estremamente affollata e, allo stesso tempo, fortemente caotica.
Da Twitter a Facebook, dai forum specializzati ai quotidiani generalisti, è tutto un dibattito, una discussione continua e molto spesso accesa, su qualunque tipo di tematica.
Sono infiniti gli esempi nei quali l’utilizzo dei social network sia scappato di mano, ma emblematica rimane la proiezione di tweet sui megaschermi della sala stampa del Consiglio europeo, nel dicembre 2010; identificati dall’hashtag #euco dovevano presentare questioni che gli utenti ritenevano “di importanza europea”.
Durante tale esperimento comparirono però un’infinità di interventi, più o meno coloriti, relativi ai fatti di cronaca italiana nei quali era coinvolto l’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.

Per rispondere a questa problematica, gli strumenti che nello specifico i quotidiani digitali mettono a disposizione sono sicuramente limitati, non permettendo un dibattito fluido e allo stesso tempo non riuscendo a evitare gli interventi di disturbo.
Di conseguenza sono molte le piattaforme e i siti d’informazione che negli ultimi anni hanno deciso di rinunciare alla possibilità di ospitare commenti sulle proprie pagine. Altri hanno invece pensato di integrare tecnologie “esterne”, come Disqus, che migliorano la visualizzazione dei “botta e risposta” o che permettono i commenti solo a chi decide di utilizzare il proprio account Facebook; questo in particolare viene fatto nella speranza che dover affiancare a ogni intervento il proprio nome e cognome possa disincentivare l’attacco provocatorio. Come abbiamo però visto nel caso citato in apertura, tale soluzione si rivela non sempre efficace.

Non esistono quindi, al giorno d’oggi, impostazioni definitive che permettano una volta per tutte di risolvere tale problema. Un insegnante può allora prendere spunto da queste questioni e agire di conseguenza, proponendo alle nuove generazioni riflessioni relative ai comportamenti da tenere durante una discussione online e ai rischi ai quali si va incontro per via di determinati atteggiamenti.
Partendo da semplici simulazioni, si potrebbero così proporre esercitazioni nelle quali gli alunni vengono divisi in tre gruppi diversi: il primo dedicato a gestire una piattaforma di dibattito, coprendo quindi il ruolo del “moderatore”, e gli altri due con il compito di discutere online, difendendo due tesi opposte.

Attraverso prove di questo tipo risulteranno da subito evidenti in primo luogo i limiti strumentali dell’attuale dibattito digitale, ovvero la difficoltà di discutere su piattaforme come Facebook e, ancor peggio Twitter, o la complessità del gestire molti dibattiti diversi, ma legati a un unico argomento.
Allo stesso tempo, un computer o uno smartphone creano uno scudo che permette all’alunno/utente di sentirsi separato dagli altri, e quindi protetto; tale fenomeno sarà sicuramente accentuato dall’uso di nickname, ma questi ultimi non sono sicuramente l’origine delle difficoltà del dibattito digitale.

Simulazioni così organizzate, nelle quali i gruppi, alternandosi, comprendono le responsabilità dell’essere nel ruolo del “moderatore”, evidenzieranno anche quanto determinati comportamenti, sia l’insulto sia il vero e proprio trolling, possano essere disturbanti per il dialogo; allo stesso tempo è opportuno che gli alunni capiscano anche che la cancellazione di un commento è sempre l’ultima soluzione da attuare, una vera e propria “resa” per il dibattito in rete.

Obiettivo di simulazioni di questo tipo non è ovviamente portare online dall’oggi al domani una nuova generazione di utenti più “educati”, ma aiutarli a riflettere, da diversi punti di vista, su un determinato tipo di azioni tipiche dell’attuale discussione digitale; sarà inoltre importante riflettere con loro sulle diverse soluzioni che oggi vengono messe in pratica e immaginarne insieme di nuove.

Perché il punto d’arrivo è ovviamente uno solo: riuscire a mettere in pratica un dialogo costruttivo, sia online che offline.

***
Immagine in testata di pixabay (licenza free to share)

Federico Nanni