La scuola 2.0. Ex malo bonum

La ragione sociale della nostra rivista, ben oltre dieci anni fa, prefigurava in nuce quello che oggi si sta cercando di attuare con qualche affanno, a scuole chiuse, con l’emergenza del Covid 19. Education 2.0 cosa altro vuol dire se non un progetto di ricerca educativa in cui trovino lo spazio dovuto l’interattività e l’utilizzazione estesa della rete? 

‘2.0’ non è un numero messo lì per far bella figura. Esso contraddistingue un approccio attivo degli utenti del web, che va oltre la semplice fruizione ‘1.0’, seppure supportata da strumenti di ricerca, selezione e aggregazione sempre più efficienti ed efficaci. La “rivoluzione informatica”, ormai consolidatasi a livello globale, ha senza dubbio coinvolto il mondo della scuola, pur non dispiegandovi tutte le sue potenzialità.

Abbiamo assistito negli ultimi anni a un’introduzione massiccia di hardware (PC, LIM, ecc.) e software di rete, che è stata spesso intesa come un fattore di ‘modernità’ di per sé e quindi capace di rispondere alle pressanti richieste di ‘svecchiamento’ che provenivano dal mondo esterno. In questa direzione sono stati compiuti molti passi e oggi si può dire che nessuno dei circa ottomila istituti scolastici autonomi italiani sia privo di un collegamento internet (se non altro per adempiere ai compiti amministrativi, ormai in larga misura dematerializzati). 

Ma come e in che modo il core dell’azione didattica ed educativa è stato toccato e trasformato in questi anni dall’approccio “2.0” da noi da tempo auspicato? Come dice giustamente Mario Fierli nel suo bell’articolo apparso su questa stessa rivista il 18 marzo scorso, «la scuola è più vicina alla fabbrica che a una istituzione di ricerca, basata com’è su due punti fissi: l’unità-classe e l’orario»; essa è quindi restata sostanzialmente refrattaria a mutamenti radicali del suo paesaggio e della sua fruizione. Per dirla in termini brutali, la rete ha funto spesso da mero orpello modernizzante.

I drammatici fatti di questi giorni hanno messo in discussione certezze e confini che sembravano assodati e invalicabili. Si pensi solo al mutamento repentino che sta vivendo la politica economica della UE, posta di fronte a evidenti segnali di declino. L’emissione di Eurobond, richiesta invano dall’Italia più di un decennio fa, oggi si prefigura come emissione forzata di ‘Coronabond’, una specie di prestito di guerra.

Il ‘villaggio globale’, che è tale nella nostra vita quotidiana, come nel mondo della produzione e della finanza, non è purtroppo mai diventato un ‘villaggio politico’ e quindi è caduto preda delle tempeste scatenate dagli enormi interessi che hanno viaggiato e viaggiano da anni attraverso il pianeta senza briglie né governo. Il Covid 19 è anche un risultato di questo turbinoso sviluppo. La politica narrow-minded che affligge tutte le élites della Terra spinge ad agire in funzione della mera autoconservazione e quindi a evitare che ai radicali mutamenti di cui siamo stati fortunati testimoni nel corso dell’ultima generazione – diciamo dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989 – corrispondano scelte di governo coraggiose e all’altezza dei tempi.

Tornando alla scuola, ciò che sta accadendo con l’emergenza del Covid 19 e la conseguente chiusura generalizzata, si può dire su scala mondiale, degli edifici in cui il servizio scolastico viene di solito dispensato, apre una finestra che è, a un tempo, un grave rischio e, come sempre, un’opportunità. Se da un lato si potrebbe pensare che la scuola così come la conosciamo è diventata ormai ‘inutile’, dall’altro l’urgenza delle circostanze ci potrebbe dare la forza necessaria per cambiare davvero e in profondità modi e ragioni del fare scuola.

Oggi si sente dire un po’ dappertutto che l’insegnamento necessita di un rapporto empatico, di un dialogo personale tra discente e docente. Sono molti però gli anni in cui la scuola si è trovata sommersa da ‘prove oggettive’, da ‘classifiche’ estrinseche, da confronti meramente quantitativi e a a-contestualizzati goal-oriented; la scuola italiana, con le sue prove orali, è stata considerata ‘arretrata’ dal main stream pedagogico; da qui l’abnorme diffusione di test scritti ‘sostitutivi’ dell’orale,  spesso a risposte multiple e la conseguente riduzione dell’insegnante a ‘tecnico della didattica’, con funzioni largamente burocratizzate. Adesso, con la chiusura fisica delle scuole, si riscopre come indispensabile quel rapporto empatico di cui si è detto spesso tutto il male possibile in quanto soggettivo, arbitrario, fuorviante. 

Il problema tuttavia non è qui, in un ripristino nostalgico-ideologico della figura del professore in una rinnovata quanto incongrua atmosfera da libro Cuore.  Esso sta piuttosto nella persistente mancanza di coraggio nel criticare la scuola che conosciamo e che, non bisogna dimenticarlo, non è una categoria dello spirito, ma una forma storicamente determinatasi e che, come tale, è sorta a un certo punto ed è quindi destinata, prima o poi, a scomparire. 

La sua nascita, lo si sa, risale alla Ratio Studiorum gesuitica della fine del XVI secolo: si era anche allora in un periodo di grande crisi (non sanitaria). La Riforma minacciava l’ecumene cattolica, ma questa seppe ben reagire, anche sul piano delle istituzioni culturali. Allora definire una ratio, una struttura rigida, con edifici appositi, classi divise per età e una necessaria propedeuticità degli insegnamenti, significava compiere un grande passo verso un sapere meglio distribuito, aperto potenzialmente a tutti e più solidamente fondato. Quella struttura è restata sostanzialmente inalterata fino ad oggi, PC e LIM comprese.

L’occasione che ci si offre con l’emergenza Covid 19 non dovrebbe essere solo una corsa a tamponare i danni, con l’aumento vertiginoso dei materiali offerti in rete, con le interrogazioni via Skype, con l’utilizzo più generalizzato delle piattaforme didattiche, ma anche un primo momento di ripensamento generale del tempo-scuola e della sua struttura di base.

Consentitemi alcune provocazioni (mi riferisco sostanzialmente alla scuola secondaria di secondo grado): siamo certi che una frequenza quotidiana esemplata sul tradizionale orario di ufficio 8 – 14 sia ancora proponibile? Perché non iniziare a introdurre anche a scuola una distinzione tra front-office e back-office, laddove il primo dovrebbe servire semplicemente a fornire gli strumenti di base, fissare gli obiettivi, a chiarire i punti oscuri e il secondo alla elaborazione personale e non regolata da moduli temporali prefissati?Perché non pensare a un modello di lavoro didattico a progetto, blended, da sostituire a quello meramente lineare e additivo di oggi? Perché non ipotizzare una rottura delle unità-classi, consentendo, se del caso, a un sedicenne di lavorare a fianco di un diciottenne se accomunati dallo stesso obiettivo e dallo stesso progetto? 

Ciò potrebbe condurre da un lato a ridurre il tempo-scuola allo stretto indispensabile, da organizzare solo attorno a periodici appuntamenti con il docente, che a questo punto dovrebbe utilizzare le sue indispensabili competenze professionali per diventare un cibernauta, un mentore di progetto, il responsabile dei risultati. Lo smart-work di cui tanto si parla in Italia non ha mai decollato, pur contenendo in sé straordinarie potenzialità in termini di efficienza, efficacia, economicità: perché escluderne il mondo della scuola?

La didattica on-line che vedo proposta oggi mi pare prevalentemente un mero prolungamento via web del tradizionale insegnamento, che ha caratteristiche ancora 1.0, in cui prevale la frontalità e la trasmissione dei contenuti top-down, non certo quelle che prefigurerebbero un modo davvero nuovo e diverso di fare scuola.

Claudio Salone