La filosofia negli Istituti tecnici – Riflettendo sull’articolo di Giuseppe Cappello
Nel secondo numero de Il Politecnico (6 ottobre 1945), ricorda Vittoria Gallina, Vito Pandolfi intervista Concetto Marchesi ed Elio Vittorini sul tema 8 anni di scuola obbligatoria e gratuita. Vittorini dice di non essere d’accordo su un punto di quanto sostiene Marchesi che, affermato il valore di una scuola che realizzi il diritto allo studio per tutti, dice «chiudere buona parte di scuola superiori e universitarie per ridurre a un minimo di veramente capaci i frequentanti di tali scuole e ottenere una severa selezione negli studi, così scrivendo Marchesi, «egli mostra di condividere le preoccupazioni di chi ancora concepisce gli studi non altro che come un mezzo per fornire i quadri della società». Vittorini si chiede allora se il «problema della scuola dovrà essere soltanto quello di formare i quadri dirigenti» e afferma che la scuola riguarda l’organizzazione di tutta la società, perché se è vero che la scuola deve fornire saperi specialistici dal medico, all’ingegnere, al chimico, al coltivatore di piselli , all’allevatore di pecore, « vi è molto di più: la scuola può insegnare tutto quanto occorre all’uomo per diventare soggetto di cultura e coscienza , cioè di libertà di capacità creativa e di fede nel progresso civile». Vittorini non nega l’importanza degli specialismi per una società complessa, ma osserva «è anche nell’interesse della civiltà che anche il più umile lavoratore manuale si trovi, di fronte ai libri, di fronte alle opere d’arte, di fronte al pensiero scientifico e filosofico, di fronte alle ideologie politiche, di fronte ad ogni ricerca e ad ogni esperimento della cultura, nelle stesse condizioni di assimilabilità in cui funzionalmente si trova l’ingegnere, il medico e il professore». Oggi leggiamo che il Ministero dell’istruzione proporrebbe , o già lo ha fatto, di aggiungere l’insegnamento della filosofia negli istituti tecnici.
Il denso e appassionato articolo di Giuseppe Cappello ha il merito di confrontarsi con il dibattito che si è aperto sulla proposta e di esprimere in modo ragionato la sua perplessità, sviluppando due argomenti: il primo è quello di evidenziare che un problema così serio quale è quello di dare qualità a una scuola per tutti , si riduce in questo modo a una operazione di sommatoria di ore e di materie; il secondo di dimostrare, con molto rigore, che la filosofia è un ‘oggetto non qualsiasi’ che va maneggiato con cura e rispetto per le tante implicazioni e suggestioni che esplicitamente e implicitamente esprime.
Da qui è partito, all’interno della redazione, uno scambio di idee che, forse , vale la pena di registrare perché , senza pretesa di dare soluzione a un problema così complicato, apre alcune prospettive sul tema., sulle quali pensiamo sia utile aprire un dibattito approfondito. Li riportiamo qui molto sinteticamente come spunti per ulteriori interventi.
Claudio Salone sottolinea come l’aspetto interessante dell’articolo di Cappello «sta, secondo me, nella singolarità del taglio, che cerca di spiegare filosoficamente (ontologicamente) il significato ‘politico’ dell’inserimento della filosofia nei tecnici».
Per Fiorella Farinelli L’articolo ha due meriti: è di ‘attualità’ perché riferito a una proposta che c’é e di cui alcuni discutono (ma non è detto che sia attuale la proposta, ché anzi ripropone la vecchia idea che il diritto di tutti all’istruzione si sostanzi nel diritto di tutti a sapere le stesse cose : ma equità non è la stessa cosa di eguaglianza ); è scritto molto bene, ma il problema del profilo culturale dell’istruzione tecnica, quello da discutere davvero, è il rapporto tra professionalità e cultura, tra tecnologie e pensiero, tra fare e inventare; se questo è il problema, ‘aggiungere’, anche nel caso di materia opzionale, non lo risolve.
A Mario.Fierli che al problema dell’istruzione tecnica e del suo ruolo sociale e formativo dedica molta parte della sua continua riflessione e proposta, l’articolo di Cappello, indubitabilmente di grande livello, ha fatto riemergere qualche scoria gramsciana, che ancora evidentemente lo abbandonano: per questo non riesce ad adattarsi all’idea che il mondo si debba dividere fra quelli destinati a farlo funzionare e quelli destinati a interpretarlo. Però è vero che il problema non si risolve semplicemente introducendo un’ora di filosofia negli Istituti Tecnici. Allora forse è meglio partire dal basso. Luciano Floridi nel suo recente Pensare l’Infosfera – La filosofia che design concettuale ricorda che per sapere e capire bisogna porre e porsi le domande giuste, in modo da avere risposte rilevanti e significative. Ci sono domande chiuse, per rispondere alle quali si può ricorrere a due tipi di risorse, informazioni empiriche o a elaborazioni logico-matematiche, e domande aperte, per le quali tali risorse non bastano. La caratteristica delle domande aperte è che in genere rimandano ad altre domande. Le domande filosofiche sono domande aperte. Molti pensano che solo le prime siano vere domande e le altre siano prive di senso. Turing, per esempio, sostenne che la domanda «le macchine da calcolo possono pensare?» ci caccia uno sterile gioco di rimando (cosa è il pensiero, e così via) e preferisce trasformarla in una domanda chiusa a cui si può rispondere in modo empirico: se non puoi distinguere la risposta di una data macchina da quella di una data persona allora puoi dire che la macchina pensa.
La difficoltà della filosofia, prosegue Fierli, è dunque quella di gestire le domande aperte accettando la necessità del rinvio ad altre domande per arrivare a una risposta. Ma in alcuni casi l’apertura è, per così dire, troppo grande. Come dice Floridi, occorre imparare a scegliere, nella ricerca di risposte, il giusto livello di astrazione. Il che, in altri termini, significa imparare a indagare in modo sensato sui significati che permettono di chiarire i problemi. Ma questo non dovrebbe essere un buon obiettivo formativo? In fondo è una disciplina intellettuale, un modo per distinguere la chiacchiera dall’indagine. E non può essere un diritto di tutti? La cosa è particolarmente evidente per le domande che riguardano l’etica. Parlare dell’attuale dibattito sulla vaccinazione è fin troppo ovvio. Ci sono domande chiuse (il vaccino funziona?) e domande aperte (è eticamente ammissibile non vaccinarsi?). La vita ci consegna la vastità dei temi sui quali ci si può interrogare.
Se lo studente di un istituto tecnico ha il diritto di raggiungere in qualche misura questo obiettivo formativo ci dobbiamo domandare come. Per questo è necessario un insegnamento di filosofia? Oppure lo si può ottenere usando opportunamente gli spazi che tutte le discipline offrono? Il che mette in discussione il metodo di insegnamento della filosofia o la capacità di ogni disciplina di uscire da proprio ambito specifico. Oppure dobbiamo rinunciare a questo obiettivo accettando che per chi non fa studi liceali ci sono sempre la risorse del buon senso e del senso comune? Comunque questo problema non può essere affrontato in modo isolato, ma va collocato in una discussione complessiva sulla funzione, culturale e sociale, dell’istruzione tecnica. Come quella che stiamo iniziando a fare in questa rivista.