La filosofia negli Istituti tecnici e la gentrificazione del concetto
Il Ministro Bianchi ha comunicato che al Ministero della Pubblica Istruzione si sta lavorando per mettere a punto una riforma che introduca la filosofia negli istituti tecnici. La notizia ha suscitato un diffuso dibattito sia fra i docenti che fra note personalità del mondo della cultura. Cacciari si è così espresso, con i toni che gli sono propri, in maniera perentoria: «Sembra una di quelle tante uscite che di tanto in tanto finiscono sui giornali come il cambio degli esami di maturità»; di contro, Umberto Galimberti, collega dell’ex sindaco di Venezia all’Università Ca’ Foscari nonché a quella del San Raffaele di Milano, si è detto entusiasta rispetto al progetto di riforma. Luca Mori, dell’Università di Pisa, non ha accolto né scartato l’idea in maniera aprioristica ma ha sottolineato che è necessario «ragionare su come introdurla nei tecnici». «È chiaro – aggiunge saggiamente Mori – che non si può fare come per i licei classici e scientifici». Sennonché, al netto della notorietà mediatica, che è oggi il criterio con cui si distingue la competenza a parlare di qualcosa se non di qualsiasi cosa, bisognerebbe innanzitutto interpellare i destinatari della proposta ministeriale. Cercando fra le loro risposte, non sembra emergere un particolare entusiasmo. La professoressa Patrizia Marini, dirigente scolastica dell’Istituto Tecnico Agrario Emilio Sereni di Roma nonché responsabile della Rete Nazionale degli Istituti Agrari, dice senza mezzi termini: «A me sembra che prima di pensare ad introdurre un’altra disciplina del tutto nuova bisognerebbe pensare a ripristinare le ore tolte ai tecnici con la riforma di dieci anni fa. Negli agrari, per esempio, c’è un paradosso: sono state eliminate sia la botanica sia la meccanica; ma come si fa a diventare un tecnico agrario senza studiare la botanica?» Esattamente come – aggiungiamo noi – nei licei scientifici è stata per esempio eliminata un’ora di storia.
Cosicché la cifra di questa riforma pare aggiungersi, in maniera empirica e senza avere un’idea complessiva dell’istruzione, alle tante altre con cui il ministro di turno ha voluto lasciare il suo autografo nelle stanze di viale Trastevere, proprio come i ragazzi incidono i banchi o i muri nelle aule scolastiche con il proprio nome, a segnalare il loro passaggio. Da pochi anni, a voler riprendere le sagge parole della Professoressa Marini, abbiamo assistito all’introduzione dell’Alternanza Scuola Lavoro (ASL), oggi PCTO, nei licei Classici e ora vedremo probabilmente la speculare introduzione della filosofia negli Istituti Tecnici. Un capolavoro di democrazia, a stare all’imperativo con cui Clistene, nel 507 a.C., introdusse la sua riforma epocale, che avrebbe segnato la cifra delle istituzioni politiche occidentali di lì in avanti. Il politico ateniese, nel sottrarre il potere ai ghene, e nell’organizzarlo sull’unità dei demi, i quartieri, affermava perentoriamente: «Mescolare!».
Ci sia concesso stare alla filosofia, che è tema in questione, e concederci una digressione su Empedocle. Questi immaginava che la vicenda cosmica fosse scandita da diverse fasi di separazione e mescolanza degli elementi originari dell’acqua, dell’aria, del fuoco e della terra; gli elementi, se in un momento aurorale erano assolutamente separati ognuno in se stesso, si mescolavano poi a costituire la natura così come noi la conosciamo per poi giungere al livello parossisitico della con-fusione totale del caos; di qui poi, in un moto circolare, recuperavano l’equilibrio naturale e si riunivano infine nella originaria separazione aurorale.
Empedocle, oltre a essere un filosofo, era anche un importante politico democratico nella sua Agrigento e non vi è tema di dire un’astrusità nel ritenere che la vicenda cosmica immaginata da Empedocle non fosse una proiezione (ma anche viceversa) della vicenda con cui pure si svolge il circolo delle forme di governo. Ne parla Platone nel libro VIII della Repubblica e la logica che permea la circolarità politica della dialettica uno-molti/effusione-confusione ricalca in fondo la dinamica già descritta in Empedocle; cosi potrebbe essere proprio la filosofia a costituire un criterio di giudizio con cui esprimersi sulla proposta del Ministero. Certamente vi sono stati anni in cui la trascendenza di un indirizzo di studi rispetto all’altro è stata assoluta; oggi, però, la domanda che ci poniamo è se non vi sia una mescolanza caotica di tutto con tutto, che non giova né all’istruzione né alla filosofia stessa. Perché pure su cosa sia e debba essere la filosofia bisogna intendersi quando se ne parla e soprattutto quando si vuole portarla dentro un’aula scolastica. Diciamolo subito: la filosofia, per dirla con Aristotele, è la scienza dell’«essere in quanto essere»; si vorrà portarla in un istituto tecnico con questa idea, che non penetra più nemmeno in un liceo classico? Molti sono i casi in cui i docenti che insegnano filosofia pensano che il suo insegnamento passi attraverso quella che chiameremo una gentrificazione del concetto: che vuoi ormai metterti a leggere e a spiegare lì dove Parmenide scrive «che l’essere è e non può non essere»; dove Platone attua la sua chirurgia eidetica dell’identico e del diverso; dove, appunto, Aristotele scrive dell’«essere in quanto essere»; fino alle pagine dello schematismo trascendentale di Kant e dell’affermazione hegeliana secondo cui «la logica è perciò da intendere come il sistema della ragion pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, come essa è in sé e per sé senza velo. Ci si può quindi esprimere così, che questo contenuto è l’esposizione di Dio come egli è nella sua essenza eterna prima della creazione della natura e di uno spirito finito».
Piuttosto che andare avanti e indietro nel tempo e, per queste vie, oltre il tempo, attraverso la chirurgia dell’essere, la gentifricazione del concetto riconduce la filosofia a un più appetito (dagli studenti) e gratificante (per i docenti) riflusso nella visione di film o di analisi delle canzoni dell’epopea rock. Il Nobel a Dylan stende un velo di nobiltà e di liceità ma ahinoi non di licealità su tutto; al Liceo, la scuola che Aristotele aveva fondato ad Atene, dell’«essere in quanto essere» si discuteva; così come, per venire a tempi più recenti, i Licei furono introdotti da Napoleone in Francia proprio nel segno dell’esercizio logico puro della mente; lì dove, per la formazione dei tecnici, lo stesso Napoleone aveva pensato l’École polytechnique. «To ta auto prattein» scriveva Platone nella Repubblica: che ognuno faccia il suo! E lo faccia bene. In tempi di con-centrazione, vale bene l’imperativo di Clistene, «mescolare!»; ma in tempi di con-fusione, dovremo forse pensare con Platone: è giusto che ognuno faccia il suo. Perché lo possa fare bene; e, facendolo bene, dia dignità scolastica tanto ai licei quanto agli istituti tecnici. Il contrario, all’opposto di quanto possa apparire all’inizio, è una visione ingenua e non organica della scuola, che tende a risolvere l’istruzione in una mediocrità niente affatto aurea in cui, tutti facendo tutto, nessuno fa niente. Così quella democrazia, che tutti dicono di perseguire, viene invece sempre più desertificata a partire dalla linfa vitale dell’istruzione.
Giuseppe Cappello Docente di filosofia e storia al Liceo Augusto Righi di Roma e autore del libro Il mondo dei filosofi. Visioni e testi della ricerca filosofica dalle origini all’età contemporanea (Armando Editore 2021)