Il PNRR e il piano delle mense scolastiche

Gli obiettivi del PNRR per quanto riguarda il sistema scolastico sono articolati in modo da prevedere tre filoni di proposte: da un lato le innovazioni edilizie e strutturali, dall’altro le riforme istituzionali e in mezzo interventi che devono provvedere al miglioramento della scolarizzazione, in particolare con servizi appartenuti all’ambito assistenziale che invece vanno a collocarsi in quello della garanzia del diritto allo studio. Si tratta di opere che chiamano in causa non soltanto competenze amministrative diverse, ma anche visioni culturali e formative spesso divergenti tra i soggetti chiamati a realizzarle, scarsamente abituati alla collaborazione, soprattutto quando si richiede, come in questo caso, l’elaborazione in breve tempo di progetti innovativi.

Le palestre e le mense si configurano come strutture di collegamento tra il miglioramento edilizio e l’efficacia didattica, mentre le prime raccolgono maggiori consensi tra le amministrazioni locali, in quanto l’educazione motoria e la pratica sportiva sono molto diffuse nelle varie comunità, ed in quest’ultimo periodo vengono potenziate anche nella scuola, sia sotto forma di percorsi specialistici, sia attraverso società sportive che funzionano da centri di aggregazione per giovani e adulti, il problema delle mense deve affrontare ancora un cammino tortuoso, sia per le garanzie strutturali e sanitarie che devono offrire, sia per la funzione che devono assolvere tra gli scolari. 

La refezione, soprattutto nella scuola dell’obbligo, nasce a sostegno di quei ragazzi fragili o le cui famiglie si trovano in difficoltà economiche, anche per garantire una sana e completa alimentazione, soprattutto a beneficio di coloro che frequentavano il doposcuola, con il supporto del patronato scolastico.

Il tempo scuola è andato via via razionalizzandosi con moduli didattici comprendenti l’intera giornata e per questo si rendeva necessario il pasto intermedio. All’inizio del tempo pieno nella scuola elementare il pranzo era gratuito in quanto compreso nell’indirizzo pedagogico, mentre in seguito, quando la competenza gestionale è passata agli enti locali, in base alla situazione dei loro bilanci, le famiglie sono state chiamate a contribuire.

Il tempo pieno nel frattempo fu introdotto oltre che nella scuola primaria anche in quella dell’infanzia e nella secondaria di primo grado, il tutto però in modo facoltativo e questo fu l’inizio di un dibattito che si protrae ancora oggi sul significato educativo della giornata intera passata a scuola, nonché della opportunità che venga fornito il pasto oppure che gli alunni lo portino da casa, oltre che dei costi che devono sostenere le famiglie. Il PNRR a questo proposito voleva tornare all’origine, aumentando il tempo didattico per tutti, ritenuto utile da un lato al recepimento di nuovi contenuti e dall’altro per azioni di recupero nei confronti di quegli alunni che sono rimasti indietro, ma la difficoltà di estendere tale servizio fa dire che prima ancora di un problema economico c’è da risolvere nel Paese il consenso a tale modello di scuola, che non sembra affatto consolidato, basti guardare ad esempio alla pluralità di orari praticabili nella scuola primaria e alla scarsa domanda nella secondaria di primo grado.

Il Piano delle mense, soprattutto al sud, non ha sortito i risultati sperati. Saranno le procedure scelte dal Piano medesimo o le difficoltà finanziarie di molti Comuni, i quali ovviamente dopo aver riscosso i finanziamenti europei devono impegnarsi a proseguire il servizio, tra le incerte politiche regionali per il diritto allo studio ed i contributi parentali. La causa maggiore dell’insuccesso però potrebbe essere attribuita ad un’offerta di tempo pieno in relazione alla partecipazione femminile al mondo del lavoro, infatti, secondo la Voce.info, nel meridione meno del 25% frequenta scuole dotate di mensa contro il 60% del centro-nord. 

Nel programma “agenda sud” del ministero si vuole utilizzare il tempo pieno tra i deterrenti alla dispersione, così come il precedente governo lo voleva adottare per far fronte alle carenze della pandemia, ma l’aumento del tempo scuola non è ancora ritenuto un obiettivo per l’intero sistema.

I finanziamenti del PNRR andrebbero ripartiti tra le diverse regioni la dove ci sono i gap infrastrutturali, ma il valore dei progetti presentati al sud non corrisponde a quello delle risorse attribuite, ed il residuo è stato così riassegnato ai Comuni del centro-nord. Le realtà più carenti dunque non hanno sfruttato quanto a loro riservato e le criticità sono da attribuire alla esclusiva assegnazione tramite un bando pubblico al quale i Comuni stessi devono partecipare, il che tende a penalizzare proprio quei territori che da un lato si caratterizzano per un numero molto basso di mense e dall’altro scontano, come in tanti altri obiettivi del Piano, le carenze delle amministrazioni locali in termini di competenze progettuali.

Diversi enti locali decidono di non partecipare anche perché meno sensibili al tema o in rapporti precari con le scuole del territorio, il che viene ad influire sulla domanda dell’utenza. L’esperienza del PNRR ci ricorda che non sempre la sola assegnazione di maggiori risorse è sufficiente per il superamento dei divari territoriali, occorrono indicazioni su come impostare la programmazione per le politiche di coesione. Andrebbe introdotto anche per le mense l’integrazione a carico del bilancio dello stato sul modello previsto per gli asili nido, destinando le risorse ai Comuni con copertura in base ai “livelli essenziali delle prestazioni”.

La logica dei bandi presuppone non solo una maggiore capacità degli enti territoriali per quanto riguarda la progettazione e la gestione di lavori complessi, ma di fare rete sul territorio, anche con le scuole, il che non è affatto scontato e men che meno consolidato, tenendo conto che certe realtà, proprio quelle che hanno maggior bisogno dei servizi, devono essere accompagnati da una struttura tecnica da collocare magari presso le Regioni o le Province, da rivalutare come supporti ai Comuni, soprattutto ai più piccoli, che rappresentano una consistente parte del territorio del nostro Paese.

Per quanto riguarda le mense scolastiche sarebbe il caso di andare a rispolverare due proposte di legge ormai decadute, una indicava che il servizio di mensa scolastica costituisce un livello essenziale delle prestazioni in applicazione dell’art. 117 della Costituzione e della Convenzione sui diritti del fanciullo, l’altra  prevedeva che i servizi di ristorazione ospedaliera, assistenziale e scolastica, in quanto contribuiscono a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla salute, all’assistenza e all’istruzione, sono considerati servizi pubblici essenziali. 

Mangiare insieme ai compagni come facilitatore dell’integrazione sociale che si accompagnava alla crescita delle conoscenze; la scolarità è aumentata sul versante dell’infanzia e per l’ampliamento dell’obbligo di istruzione e questo ha richiesto maggiore impegno per la mensa. La situazione socio-economica dell’utenza ha conosciuto stagioni alterne e a tutt’oggi registra situazioni di difficoltà nelle famiglie, sia per quanto riguarda gli scarsi redditi, sia per la crescente presenza di alunni stranieri. La complicazione della situazione politica e organizzativa ha fatto sì che la mensa anziché un aiuto alla scolarizzazione diventi un elemento di conflitto nella comunità, con la scuola che si trova ad un crocevia tra l’aumento delle aspettative alimentari di certi genitori, le esigenze nutrizionali imposte da aumentati standard sanitari e gli interessi delle aziende fornitrici dei pasti che devono barcamenarsi negli scarni bilanci dei Comuni.

Il diritto allo studio per tutti è una garanzia costituzionale, secondo il modello della scuola pubblica che comprende la mensa come un collegamento dell’orario didattico, e mentre da un lato essa acquisiva una valenza educativa, pienamente inserita nel novero dei diritti essenziali, dall’altro la situazione finanziaria del Paese impose di considerarla tra i “servizi a domanda individuale”, che prevedeva il contributo da parte della famiglia per un importo stabilito dall’ente locale. Questo ha portato ad un’enorme variabilità di tariffe, a situazioni di morosità dovute a difficoltà economiche delle famiglie, a scelte di welfare dei Comuni che hanno prodotto non poche discriminazioni, come testimonia il contenzioso che si è sviluppato presso diversi tribunali. Paradossalmente c’è maggiore conflittualità la dove c’è un servizio già sviluppato, mentre nelle zone dove manca c’è anche meno impegno a realizzarlo: il PNRR vorrebbe riequilibrare la situazione. 

Il pranzo insieme è l’aspetto più apprezzato dai bambini, ma gli adulti devono pensare ai costi, alle diete, per cui si è tornati alla cucina della mamma portata a scuola, il problema economico non è secondario e nelle scuole si cerca di non mortificare i bisogni dei bimbi, che a ben guardare privilegiano il senso di comunità rispetto alle pur legittime esigenze degli adulti. L’ istituzione si concentra sull’educazione alimentare mentre i genitori sono più interessati alla qualità e sicurezza degli alimenti, delle modalità di preparazione e di consumo dei pasti: alcuni di loro dicono di aver scelto la scuola in base alla cucina.

Con il D.Legvo 65/2017 si è cercato di migliorare questa situazione definendo dette attività come facenti parti del sistema educativo nazionale, ma i finanziamenti sono ancora lontani dal soddisfare i bisogni sull’intero territorio e l’amministrazione da parte dei Comuni non offre garanzie di una completa integrazione se il 3,9% dei bambini in Italia, secondo Save the Children, non consuma un pasto proteico adeguato al giorno. La mensa gratuita dunque è ancora più utile per i minori in condizione di povertà e a rischio di esclusione sociale, in quanto rientra tra i diritti allo studio e alla salute.

Il cibo è un bene comune, il mangiare insieme ha una finalità educativa, è scuola a tutti gli effetti, che porta i bambini alla condivisione e quindi all’uguaglianza, senza discriminazioni, facendo prevalere i diritti della collettività che solo una visione privatistica e consumistica della scuola potrebbe rinchiudere in forme di pretese egoistiche anche l’alimentazione a fronte di un aumento continuo dei costi.

Il servizio mensa deve rientrare nei livelli essenziali delle prestazioni e diventare universale; se obblighiamo i bambini ad andare a scuola non possiamo chiedere di pagare il pranzo, soprattutto nelle aree di povertà educativa. La predetta associazione individua un nesso tra dispersione scolastica, presenza della mensa e tempo pieno nella scuola.

Tra Stato e Regioni è stato stipulato un accordo (2018) nel quale è assegnata alla scuola la funzione di “promuovere la salute” e non solo di educare ad essa, perché nella salute è promossa anche l’equità. Si parla di utilizzo di metodologie partecipative attraverso azioni di natura educativa, sociale e organizzativa, di cui la sana alimentazione nelle mense è l’elemento che connota lo stile di vita sia nelle attività curricolari che al di fuori dalla scuola. Si tratta di privilegiare una metodologia inclusiva, anche in raccordo con la comunità locale al fine di facilitare l’apprendimento sociale correlato a comportamenti protettivi orientati alla salute ed alla cultura del benessere.

Non ci sono più dubbi circa l’importanza della mensa scolastica e quindi occorre mettere ordine in questa babele di situazioni che da una parte garantiscano prestazioni a norma di legge per quanto riguarda i rapporti tra comuni-asl-soggetti gestori, ma dall’altra è la scuola che ha la responsabilità di ciò che accade al suo interno, nel perseguimento degli obiettivi di inclusione e di crescita degli alunni e per la l’azione educativa che si condivide con i genitori, presenti negli organi collegiali.

          

 

Gian Carlo Sacchi  Esperto di politica scolastica. Ha fatto parte del Consiglio di amministrazione dell’INDIRE e ha fatto parte del comitato Scientifico della Regione Emilia Romagna per le esperienze di integrazione tra istruzione e formazione professionale.