Errare errando. La cultura dell’errore nella pratica didattica
Quando ci impegniamo in una nuova attività, quanto è probabile che ci riesca bene al primo colpo? Se chiedessimo a Mark Zuckerberg o a Jeff Bezos quanti errori hanno commesso in passato e quanto ritengono importanti gli errori commessi, probabilmente ci risponderebbero che ne hanno fatti molti e che sono stati proprio gli errori (o meglio l’aver imparato dai propri errori) ad aver accelerato lo sviluppo delle loro tecnologie e del loro business. Per quanto possa sembrare strano, alle volte, abbiamo proprio bisogno di commettere sbagli per poter imparare dai nostri errori. Nella vita di tutti i giorni siamo chiamati a prendere decisioni al fine di affrontare le diverse situazioni quotidiane, che possono andare da quelle più semplici e rapide, come decidere se attraversare la strada oppure no, a quelle più complesse come decidere se comprare una casa. In ogni caso, nel prendere una decisione dobbiamo prendere in considerazione, e integrare, una mole consistente di informazioni così da produrre delle alternative di scelta e individuare le più opportune. Quindi, decidere significa giungere a un giudizio finale in seguito a una attenta analisi e ponderazione delle possibili opzioni di scelta.
Qualcuno ha detto «Bisognerebbe imparare a sbagliare di buon umore. Pensare vuol dire passare da un errore all’altro». Sbagliare significa già imparare, un errore è un’opportunità di apprendimento significativo. Sbagliare e imparare sono dunque virtualmente sinonimi: ogni errore è un’opportunità di apprendimento.
Un libro molto significativo sul valore euristico dell’errore
Un libro che mi ha colpito molto perché consente di pensare alle connessioni esistenti tra la pedagogia e gli studi e le evidenze delle neuroscienze e dell’informatica, è certamente Imparare di Stanislas Dehaen, autore e neuroscienziato cognitivo, Presidente del Consiglio Scientifico del Ministero francese. È un libro che apre davvero la mente. L’idea chiave discende dall’assunto che l’apprendimento passi dall’errore è che noi apprendiamo quando proviamo ‘sorpresa’. La sorpresa è il motore dell’apprendimento. il cervello apprende quando avverte un divario tra ciò che predice e ciò che invece riceve dall’esterno. Ogni volta che gli eventi violano le nostre aspettative stiamo imparando o stiamo imparando di più o più facilmente. La nostra mente è tutto un pullulare di messaggi di errore. È molto importante dunque che i ragazzi (e gli adulti!) abbiano ben chiara la differenza che intercorre tra l’errore e la sanzione che sono cose molto ben distinte.
Come costruire la cultura dell’errore
Ciò che invece è molto importante è il riscontro dell’errore, anche ai fini della valutazione: la precisione, la puntualità, la qualità, l’efficacia, la rapidità con cui il docente, l’educatore riesce a indicare il come e il dove lo studente sta sbagliando perché in quel momento lo studente sta apprendendo in modo significativo nuove informazioni e quella correzione diventa generatrice di nuova conoscenza. È molto importante che nella declinazione delle attività didattiche quotidiane ci si metta alla prova, si impari ad autovalutarsi, conoscere se stessi. Quello che gli psicologi americani chiamano retrieval testing, una pratica di testing, per cui il testarsi regolarmente, che non è il semplice compito in classe, è un momento di apprendimento attraverso un’autovalutazione all’interno di un ambiente sereno, stimolante, conviviale, ludico: stare bene insieme è metà dell’opera, facilita l’apprendimento. Molto importante è anche il ritmo, il tenere il tempo, come in una danza che segue una certa periodicità e una serie di ripetizioni in gruppo con i suoi rituali. Nei CPIA i minori non accompagnati dai 15-16 anni, che attraversano il mare da soli, tutti con background diversi pongono però il problema di come imparare una lingua seconda sbagliando di ‘buon umore’.
In un contesto in cui la cultura dell’errore va costruita e ricostruita nella sua essenza cognitiva, ricordo quando dopo una rissa sul marciapiede prospiciente alla scuola un mio studente mi disse con un ghigno di sofferenza che fin da bambino aveva ricevuto sonori ceffoni ad ogni minimo errore. È necessario tener presente che la lingua in contesto migratorio, con studenti con passati spesso difficili, non è una lingua neutra ma è invece un tema incandescente. La lingua è tirata in mezzo tra bisogno e desiderio. È lingua della sopravvivenza per chi è appena arrivato in Italia, quella dei bisogni primari, per mangiare, vestirsi, trovare una casa, avere a che fare con la burocrazia.
Noi vorremmo però che la lingua fosse anche lingua della vita, del desiderio, dell’immaginare, della bellezza e delle utopie, della speranza e di ciò che ancora non esiste. Il presupposto generale dell’apprendimento di una lingua nuova nelle classi è che non c’è una lingua sbagliata, che la lingua madre continua a essere estremamente importante e sempre presente insieme alla lingua nuova. È necessario dunque sostenere il bilinguismo additivo nelle classi con attività che tengono sempre conto della lingua d’origine con attività coinvolgenti, di gruppo, a coppie, sempre in clima ludico. Altra cosa importante è il cosiddetto code switching, che non è un errore: nelle classi multiculturali, in determinati momenti, i ragazzi utilizzano la lingua madre perché spesso è una pratica spontanea di socialità degli affetti e che quindi non va mai corretta ma valorizzata promuovendo la traduzione e la condivisione dei suoni e delle espressioni.
Per imparare a usare nuove parole sfruttando gli errori come fonti di nuove informazioni è assolutamente necessario creare un clima disteso in cui giocare con gli errori diminuendo quelle pressioni funzionali che stressano, che impediscono e inibiscono l’apprendimento. Giocare in modo creativo con il significato nella sua duplicità semantica della parola ci consente di errare nel doppio senso di sbagliare e di vagabondare. Infine occorre sperimentare forme efficaci di valutazione e autovalutazione del percorso di apprendimento da parte degli studenti. Alzare lo sguardo e guardare lontano per trasferire un’idea di progresso e miglioramento delle condizioni di partenza.
Nel processo educativo è molto importante però è che il feedback dell’errore sia fatto bene, cioè sia tempestivo, ossia deve essere vicino all’elemento del feedback, deve contenere elementi di positività, che ci sono sempre! Si parte sempre da ciò che è stato fatto bene. Se il feedback è su errori o cose non fatte bene bisogna operare delle scelte, bisogna focalizzarsi solo su qualcosa perché non serve a nulla dare feedback su troppe cose. In ogni prova c’è sempre qualcosa di fatto bene. Se il feedback è di gruppo, il ‘fatto bene’ deve essere diacronico, perché deve contenere gli elementi del progresso che si è fatto nel tempo, valorizzando gli sforzi e il percorso. Quando vogliamo sottolineare ciò che deve essere migliorato, visto il percorso fatto, bisogna individuare i toni giusti, senza essere mai aggressivi ed è necessario indicare sempre piste di miglioramento. Rispondere cioè alle domande sottointese degli studenti: come faccio a non fare più quegli errori? Cosa vuol dire ‘fatto meglio’? Non basta la soluzione, è necessaria un’indicazione su come faccio a strutturare l’apprendimento e su come fare a non sbagliare di nuovo. Spesso invece ci limitiamo, frettolosamente, a dire giusto/sbagliato.
Poi c’è anche una questione di linguaggio. Se la smettiamo di chiamarli errori e iniziamo a chiamarli fasi di apprendimento[1] socializzando gli errori all’interno del gruppo, riusciamo a mettere a fuoco le piste corrette di apprendimento. Fondamentale è il clima relazionale in cui avviene la socializzazione degli errori perché se tutti sappiamo che la socializzazione dell’errore serve per migliorare il risultato finale tutto avviene in modo fluido e sereno.
Un possibile schema di attività
In classe, con uno schema anticipatorio dell’esperienza, l’itinerario e il crono programma.
Outdoor, in cui la strada diventa la mia aula, impariamo da ciò che incontriamo (sorpresa, imprevisto). Osserviamo, memorizziamo, ripetiamo, ci auto correggiamo, con un input del riscontro di massimo 15 minuti di passeggiata.
Il ripasso sulla chat, dedicata o sul canale Instagram, in cui riportiamo, scambiamo, condividiamo gli errori e il tesoro delle parole sbagliate aumenta sempre di più.
Gamification, a gruppi attraverso Kahoot si gioca a una battaglia sulle parole sbagliate.
In moduli di due settimane si procede attraverso, un percorso a tappe in cui su googlemaps, ogni due settimane, si fa l’itinerario, si anticipano i tempi e gli spazi dell’uscita, si verificano le parole annotate nelle uscite precedenti. Durante l’uscita, in strada, prima nominiamo ciò che osserviamo: tutti sanno che l’osservazione è finalizzata a memorizzare le parole e i suoni. Vedere e toccare le cose ci aiuta a ricordarle e a comprenderne il significato.
A turno, nella chat qualcuno inserisce le parole, in live, e le parole diventano via via più esatte con l’apporto di tutte e tutti. Importante è il ritmo. Si alternano le passeggiate osservative di circa 15 minuti con momenti di pausa in cui, durante ‘“le oasi’ delle parole, possibilmente seduti alle fermate del bus piuttosto che al giardinetto, si scrivono le parole che abbiamo incontrato. I maestri scrivono le parole sulla lavagna portatile e gli studenti in modo autonomo possono controllare immediatamente. Sempre c’è una ridondanza, il cosiddetto overlearning[2]: il sovrapprendimento è sempre utile perché fino a quando la conoscenza non è perfetta il nostro cervello continua a imparare e finché c’è incertezza ci sono nel cervello segnali di incertezza ed errore che stimolano l’apprendimento. I ragazzi possono imparare anche copiando dal vicino!
Durante la settimana si fa il ripasso nella chat di gruppo e cresce l’attesa per la gamification che si farà su Kahoot, una battaglia linguistica a gruppi, con un quiz costruito sulla base delle info raccolte durante l’uscita. Alla fine, tramite piattaforma, vediamo gli errori più frequenti e ripassiamo, overlearning. Il test infine rimane a disposizione nel tempo per favorire la retrival practice autonoma e individuale. E’ un test che può essere riproposto anche in momenti successivi o consultati individualmente[3].
La paura di sbagliare genera cortisolo che non consente l’apprendimento. L’ansia da prestazione è una sindrome riconosciuta. Chi ne soffre manifesta un’attivazione dei circuiti del dolore e della paura, in particolare nell’amigdala, un nucleo di neuroni sotto la corteccia: essa compromette la memoria a breve termine e l’apprendimento. È necessario lavorare in un clima sereno per evitare ciò che una psicologa americana chiama fixed mentality, e cioè l’atteggiamento secondo cui si attribuiscono successi o fallimenti a caratteristiche fisse o immutabili tipo «la matematica non è il mio forte» o «la musica è per me un tabù».
Quando avremo tante parole sbagliate potremo raccoglierle in un vocabolario su Thinglink, e con Flipbook e sfogliarlo online. Così certamente si avrà l’impressione, è il caso di dirlo, che non esistono parole sbagliate ma parole che indicano qualcosa. Le parole sbagliate diventano invece nuove parole. L’errare può diventare dunque un errare come libero vagare euristico che ci fa scoprire cose nuove. Così gli studenti possono divertirsi a dare un significato alla parola ‘mocapiede oppure si possono chiedere cosa si venda in un’agenzia morbiliare
Nella Grammatica della fantasia, Gianni Rodari diceva che «tutti gli usi della parola a tutti, mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico: non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo». Quanto vale questo insegnamento oggi alla luce degli effetti del capitalismo senza regole?
[1] Elliot, A. J., & Dweck, C. S. (Rep. Eds.). (2007). Handbook of Competence and Motivation. New York: Guilford.[38]
[2] Dweck, C. S. (2012).Mindset: How You Can Fulfill Your Potential. Constable & Robinson
[3] Gaston Bachelard, La formazione dello spirito scientifico, Raffello Cortina Editore
Antonello Marchese Centro Regionale Ricerca Sperimentazione e Sviluppo del Piemonte