Educazione bene comune

La prospettiva fondante del percorso di ricerca e del libro di cui vi racconto la genesi è quella che l’Educazione sia un Bene comune, un ecosistema delicato e importante per far crescere in modo equo e inclusivo la dimensione culturale della comunità, baluardo dei diritti fondamentali nostri e di chi verrà dopo di noi[1].

Gli autori[2] hanno avvertito la necessità di utilizzare il momento storico traumatico e straniante della pandemia come un’opportunità, di farne un grimaldello per ampliare gli orizzonti e ricercare chiavi di lettura del vissuto nella scuola, chiavi che contemplassero tutti i punti di vista, non solo quelli della parte adulta della Comunità educante.

All’inizio dell’anno scolastico 2020-2021 l’approccio è stato perciò di mettersi in ascolto dei ragazzi e delle ragazze del triennio di tre scuole campione,  situate in tre diverse regioni italiane[3]: Abbiamo pensato che questi ragazzi avessero assoluto diritto ad un ascolto di qualità, non postulato in modo retorico come un “qualcosa in più” rispetto alla cosiddetta “didattica tradizionale”, ma proprio una sorta di ribaltamento della prospettiva della scuola, partendo davvero dai ragazzi e dalle ragazze, dalle loro domande di senso, anche dalle loro angosce e magari dalle loro speranze per poter realizzare un modo diverso di fare scuola.

Non tanto e non soltanto un dialogo  ancorato alla didattica a distanza, alle sue potenzialità e ai suoi limiti, come era inizialmente prevedibile; l’orizzonte si è allargato nel corso del cammino, andando a toccare i temi della relazione educativa, della credibilità dell’istituzione scuola e degli adulti che vi lavorano, dei desideri e delle emozioni dei più giovani.

Nel percorso gli esperti hanno svolto un ruolo di guida, di mediatori e garanti, impegnati a  indicare la via di alcuni processi, mettendo responsabilmente in comune esperienze e saperi: in particolare Mantegazza è stato l’interlocutore diretto dei ragazzi, Romagnolo ha svolto il ruolo di osservatrice, curato  gli aspetti organizzativi, gestionali e  documentali, raccogliendo e catalogando i materiali di lavoro, i testi e i contributi di approfondimento o di stimolo a ulteriore discussione che i ragazzi e le ragazze hanno postato in rete nell’intervallo fra un incontro e l’altro [4].

I ragazzi sono stati i protagonisti di conversazioni aperte, con l’unico vincolo metodologico di lasciarsi interrogare da un apologo, un’immagine, una metafora, un repertorio di parole chiave o una coppia di nomi, che incarnassero opposizioni concettuali – quali nido/volo o sicurezza/libertà, contagio/contatto , dai quali prendere spunto per raccontare e raccontarsi, ascoltare e ascoltarsi.

Il setting è con ogni evidenza più vicino a quello di un laboratorio o di una sala prove, un contesto di apprendimento collettivo, orientato a facilitare la propensione ad aprirsi, lo scambio intellettuale e la circolarità relazionale.

Lo spirito è stato di sperimentare, di innovare, di non rimanere fermi – consapevoli che chiudersi dentro, trovare confortevole la clausura è un pericolo[5]e di affrontare le criticità, non solo per limitare i danni, ma per cogliere l’opportunità di avviare trasformazioni.

Se il progetto ha preso le mosse da una cornice piuttosto tradizionale, un ciclo di conversazioni o dialoghi, meno tradizionali sono state le strategie di lavoro ispirate in modo particolare alla Azione-Ricerca partecipata[6], sperimentata e personalizzata sul campo, flessibile, ibrida, che ingloba anche metodiche di matrice più prettamente sociologica, legate ai percorsi di costruzione di comunità, di progettazione partecipata, di mediazione, di gestione dei conflitti, rispecchiando quindi una scelta transdisciplinare. È stato un viaggio progettato a maglie larghe, per il quale partire senza la rassicurante rete protettiva di protocolli rigidi, ma dotati di una mappa su cui erano disegnate alcune destinazioni con la libertà di seguire sempre nuovi desideri.

Il bilancio del percorso ha rivelato che i ragazzi ripongono ancora nella scuola la loro fiducia, anche se non hanno esitato a esternare malcontento e a far venire alla luce contraddizioni, nodi critici e fragilità: spicca tra queste la difficoltà a intercettare le loro emozioni, ad ascoltarne le domande e a stabilire con loro relazioni collaborative, improntate alla reciproca fiducia.

L’interesse del materiale raccolto e l’esito della sperimentazione hanno suggerito di non limitarsi a un semplice report da consegnare alle scuole coinvolte: così questa avventura animata dalla partecipazione appassionata e stimolante dei ragazzi è diventata un racconto che ora può offrire a tutti gli operatori della scuola, anche dopo la pandemia, stimoli di riflessione per accendere un riflettore importante su meccanismi che non funzionano più e che non devono più essere replicati e accelerare quella trasformazione della scuola che da tempo e da più parti viene invocata.

 

[1] R. MANTEGAZZA – A. ROMAGNOLO, Educazione bene comune. La voce dei ragazzi e delle ragazze, Edizioni La Meridiana, 2022

[2] Raffaele Mantegazza è docente di pedagogia presso l’Università di Milano Bicocca; Annamaria Romagnolo, docente di scuola secondaria di secondo grado, è oggi impegnata nella progettazione e nella formazione e è socio fondatore dell’Associazione “Circola – Cultura, Diritti e Idee in movimento”.

[3] Liceo Scientifico Lorenzo Respighi di Piacenza, Istituto Tecnico per il Turismo Marco Polo di Firenze e IIS Liceale Quinto Orazio Flacco di Portici.

[4] R. MANTEGAZZA – A. ROMAGNOLO, Op. cit., Antologia di documenti condivisi on-line dalle studentesse e dagli studenti, pp. 149-205

[5] R. MANTEGAZZA – A. ROMAGNOLO, Op. cit., Prefazione di Cesare Moreno, p.8

[6] Cfr. L. FORMENTI, Formazione e trasformazione. Un modello complesso, Raffaello Cortina Editore, 2017

Rita Bramante Già Dirigente scolastica, membro del Comitato Nazionale per l’apprendimento pratico della Musica