Cosa impariamo dall’informale dei nativi digitali? La definizione di “apprendimento informale”
Immagino che il semplice titolo di questo articolo induca nei “migranti digitali”, fieri di essere portatori del proprio modello culturale guttenberghiano, l’istintiva reazione del “sensato rifiuto”. Apprendimento informale? Lezioni dai “nativi digitali”? Ma di cosa stiamo parlando?
Inoltre, anche se ne volessimo parlare, dobbiamo fare i conti con i recenti dati del Rapporto diTelecom Italia sullo stato di attuazione dell’Agenda digitale UE (Il Sole 24 Ore del 23 gennaio 2013): “Preoccupante il dato italiano (47%) rispetto al target UE del 75% di popolazione che entro il 2015 dovrà usare regolarmente Internet.
Siamo addirittura terzultimi per e-commerce nei Paesi UE con un deprimente 15% di persone che hanno acquistato online nell’ultimo anno mentre Bruxelles chiede di raggiungere il 50% entro 3 anni”.
Quindi parlare di innovazione significa parlare di ingenti finanziamenti pubblici (reti cablate in fibra ottica – per esempio) e soprattutto di un impegno finanziario delle famiglie nell’accedere alla rete con tutti i necessari supporti tecnologici (costo oggi, in tempi di depressione economica, in molti casi proibitivo).
Ricordiamo, poi, la tendenza a restarne fuori per chi vi accede tardi (la nuova forma di “esclusione digitale” dovuta al “digital divide”).
Due forze frenanti che, comunque, se la devono vedere con la diffusione (almeno in UE) delle tecnologie digitali spietatamente insidiose, invasive (per il “benessere” che rappresentano) e portatrici di grandi interessi economici, che non conoscono freni.
Quindi, la “diffusione necessaria” del digitale come nuova forma di “benessere e interesse” economico sono le vere ragioni alla radice dell’avvento di quella nuova generazione che fu chiamata da Prensky la “generazione dei nativi digitali”.
Essi apprendono in modo informale, come accade agli “studenti lavoratori” e a tanti altri il cui accesso all’istruzione formale è ostacolato dalle condizioni sociali ed economiche (noto già dal tempo del libro bianco di J. Delors).
Ora, di apprendimento informale se ne parla da tempo pur non avendo mai definito esattamente di cosa si tratti!
Ebbene, a questo proposito trovo molto comodo fare riferimento a un interessante report del 2008, non molto recente, ma certamente molto istruttivo perché comunque di grande attualità ed estremamente esauriente sull’argomento: “Learning from digital natives: bridging formal and informal learning”, realizzato da un gruppo di ricercatori delle Università di Glasgow (Caledonian) e di Strathclyde.
In questo rapporto si traccia la storia di questa definizione, con un’attenta bibliografia, e una cura della storia della scoperta della sua funzione nel contesto dell’educazione.
È una ricostruzione affetta da un solo limite: l’imprinting è quello europeo. Vedremo appresso, però, un’estensione del concetto su stili cognitivi di tipo USA.
Questo rapporto si chiedeva, quasi cinque anni or sono, le stesse cose che ci chiediamo oggi, in piena turbolenza politico-istituzionale, con una fitta Agenda digitale.
Intanto, il rapporto constatava che la tendenza a misurare gli apprendimenti informali per certificarli sarebbe una specie di ossimoro (misurare l’incommensurabile) e che sarebbe stato un processo pericoloso e minaccioso per l’apprendimento formale (che avrebbe così perso il suo storico prestigio); comunque non era questo l’intento del lavoro di ricerca.
L’obiettivo del rapporto era quello di capire in che modo lo strumento informale potesse essere di aiuto all’istruzione formale per rafforzare e sostenere quest’ultimo con le nuove energie dell’innovazione tecnologica.
Le domande poste dal gruppo furono le seguenti:
• Qual è la logica educativa per l’integrazione formale e informale dell’apprendimento supportate dagli e-tools?
• Quali esempi di tale integrazione esistono nell’ambito della ricerca e della pratica in tutto il mondo?
• Quali sono le esperienze degli studenti nell’utilizzo di strumenti elettronici per sostenere il loro apprendimento nel dominio sia formale che informale?
• Quali sono le esperienze del personale e le percezioni nell’utilizzo di e-tools a supporto dell’apprendimento all’interno del dominio educativo?
• Quali sono le barriere e i facilitatori per l’uso di queste tecnologie all’interno dell’istruzione superiore?
I dati da loro raccolti furono quelli relativi alle abitudini degli studenti universitari (di ingegneria e di sociologia) considerati, comunque, “nativi digitali” secondo la fascia, più flessibile, definita da M. Prensky, dei nati dal 1982 al 2000, quindi pienamente attivi presso l’università nel 2006-07 (con un’età di 24-25 anni per i più vecchi).
A proposito dei nativi digitali è bene ricordare una opportuna e necessaria distinzione.
I migranti digitali ostili (e non ne faccio un giudizio di merito o demerito) sono soliti fare di tutte le erbe un fascio. Distinguere è però, in questo caso, essenziale.
Esistono almeno tre fasce di nativi digitali (A.M. Allega, “I nativi digitali non sono tutti uguali”, A.M. Allega e P. Ferri, “La via dei nativi digitali”, Speciale Education 2013 e P. Ferri, “Nativi digitali”, Mondadori 2009).
E, rispettivamente, tre ordini diversi di problemi: i nativi integralmente presi dalle tecnologie, quelli che le rigettano del tutto e quelli che invece ne fanno un uso proprio e moderato.
Naturalmente vincono questi ultimi, perché rispetto agli altri ottengono punteggi PISA superiori alla media europea.
In questo articolo ci limitiamo a questa categoria di nativi digitali. Ciò non toglie che le altre due categorie rappresentano a loro volta importanti aspetti socio culturali del nostro prossimo futuro.
Il rapporto ricostruisce la storia e l’evoluzione nel tempo delle definizioni di apprendimento formale e informale dato dagli esperti della Comunità europea per approdare alle seguenti conclusioni:
1. “Apprendimento formale: apprendimento fornito da un’istruzione o formazione di tipo istituzionali, strutturato (in termini di obiettivi di apprendimento, tempo o sostegno all’apprendimento), che comporti la presenza di un insegnante designato o allenatore, e portando a certificazione o un premio di qualificazione o di credito. L’apprendimento formale è intenzionale dal punto di vista del discente”;
2. “Apprendimento informale: apprendimento che non è fornito da una formale istruzione o istituto di formazione e di solito non porta a certificazione. Risultati di apprendimento informali sono ad esempio le attività quotidiane di vita sociale relative all’istruzione, al lavoro, la socializzazione con gli altri o l’esercizio di svago, attività e hobby.
L’apprendimento informale può essere strutturato o non strutturato in termini di obiettivi di apprendimento, tempo di apprendimento o di apprendimento sostegno. L’apprendimento informale può essere intenzionale o non intenzionale (incidentale) dal punto di vista dello studente”.
Occorre sottolineare che le due definizioni di apprendimento sono caratterizzate da alcune “essenziali” proprietà, intrinseche alla loro stessa natura, sia quando sono presenti sia quando non lo sono: l’essere istituzionale, l’essere strutturato (obiettivi, tempi e sostegno), possedere una certificazione (non una semplice validazione) ed essere intenzionale.
Anche l’apprendimento “non formale” può essere “ben definito” in questo modo, esattamente come non istituzionale, ben strutturato, certificato e intenzionale.
L’apprendimento informale è quello caratterizzato, quindi, dall’essere non istituzionale, non certificato e non necessariamente intenzionale, ma potrebbe comunque essere strutturato. Le seguenti tre forme di apprendimento informale:
• Apprendimento Auto-diretto (Intenzionalità Si, Coscienza Si)
• Apprendimento Incidentale (Intenzionalità No, Coscienza Si)
• Apprendimento Socializzato (Intenzionalità No, Coscienza No) sono tratte dallo studio pionieristico di tratte da D. Schugurensky, 2000, “The forms of informal learning: towards a conceptualization of the field”, in NALL Working Paper No.19, Department of Sociology and Equity Studies in Education, University of Toronto, 2000, p. 7.
Questo lavoro era principalmente orientato alla valutazione delle competenze nell’assistenza sociale – quindi competenze relazionali – nella comunicazione e nell’ascolto, nella gestione in situazione di persone e gruppi con “problemi sociali e sanitari”.
Com’è facilmente osservabile, resta piuttosto difficile una misura oggettiva, come avviene per l’apprendimento formale.
La ragione è che il fattore discrezionale del valutatore è determinante (Evangelisti http://www.orientamento.it/orientamento/8g.htm).
Una delle ragioni per il ritrovato interesse in questo Report del 2008 sta nel fatto che recentemente è stato diffuso lo “Schema di Decreto legislativo recante la definizione delle norme generali e dei livelli essenziali delle prestazioni per l’individuazione e la validazione degli apprendimenti non formali e formali (…)”, che presenta una definizione di apprendimento informale che segue esattamente lo stesso imprinting del rapporto.
Lo Schema definisce l’apprendimento informale come “apprendimento che, anche a prescindere da una scelta intenzionale, si realizza nello svolgimento, da parte di ogni persona, di attività nelle situazioni della vita quotidiana e nelle interazioni che in essa hanno luogo, nell’ambito del contesto del lavoro, familiare e del tempo libero”.
Osiamo sostenere che trattasi di una definizione meno circostanziata.
Con quali strumenti si sviluppa l’apprendimento informale?
Limitatamente all’uso delle tecnologie digitali, che si pensa possano identificare più facilmente alcune competenze specifiche, il Report traccia le seguenti “facilities” (secondo il rapporto del 2008, quindi oggi con molti altri strumenti digitali, si pensi ad esempio al Web 3.0).
e-Tools (strumenti elettronici) a supporto dell’apprendimento (ovviamente, e tanti altri…):
• Hardware – Mobile phones, Personal media players, Computers, PDAs (personal digital assistants), laptops and tablet PCs, Game consoles.
• Software – Web 2.0 or social software: oMultiplayer gaming environments (Multi-User Dungeons, Massively Multiplayer Online Games,3D Virtual Worlds) – EverQuest, World of Warcraft, Second Life; oDiscourse facilitation systems (Synchronous – instant messaging, chat; Asynchronous – email, bulletin boards, discussion boards, moderated commenting systems) – MSN Messenger, Google Groups, MySpace Groups;
– Content management systems (blogs, wikis, blikis, document management, web annotation utilities) – Blogger, Wikipedia, Plone;
– Product development systems (especially for Open Source software) – Sourceforge, Peer-to-peer file sharing systems, Napster, BitTorrent, Gnutella, Online bidding systems eBay;
– Learning management systems – BlackBoard, Moodle; oRelationship management systems – MySpace, Friendster, Bebo; oSyndication systems – list-servs, RSS aggregators, Newsfeeds; oDistributed classification systems (social bookmarking, tagging) – Del.icio.us, Blinklist, Connotea, Flickr;
– Multiplayer Gaming Environments – Blogs, Wikis, Social bookmarking.
• Networked access and connectivity.
Come funziona l’apprendimento informale? Quali sono i suoi “learning outcomes” (risultati di apprendimento)?
Risultato importante dell’indagine è che i giovani nativi usano e-tools e “social software” per:
• la socializzazione e la creazione di comunità;
• sostenersi a vicenda attraverso le comunità;
• la condivisione e la creazione di risorse;
• organizzare il loro apprendimento e i loro gruppi.
Ora, vorrei sottolineare i concetti di “socializzazione”, “comunità”, “sostegno”, “condivisione”, “creazione di risorse”, “organizzare”, “gruppi”, cioè un concentrato difficile da trovare nella società “civile” se escludiamo le parrocchie, le associazioni sportive private e le scuole.
Quindi, l’ambiente digitale è un ambiente di comunicazione “vivo”, “concreto”, “reale” (per i risultati di questo rapporto e per come lo vedono gli studenti universitari intervistati, considerati nativi digitali).
Occorre sottolineare che, oggi per i “nativi” come allora per i “migranti”, nonostante tutto, queste attività di grande divisione e socializzazione sono sempre rare, dipendendo da situazioni di eccellenza locale, e che invece, nella maggior parte dei casi, si resta trincerati nell’autoreferenzialità.
Il problema dell’autoreferenzialità resta tra le patologie più gravi dell’istruzione non si può curare solamente con processi di valutazione, ma con percorsi di apprendimento condivisi (cooperative learning, mastery learning, …), i quali sembrano mostrare, più che mai, la loro anima intrinsecamente mista nei “social software” strutturati in ambienti digitali.
L’apprendimento informale è una forma di apprendimento “nativo” nell’ambiente digitale per la sua natura socializzante spontanea e strutturata dalle interconnessioni. In termini alternativi, si tratta di una comunità di pratica che potremmo anche definire “comunità di pratica digitali” o “digital and social networks”.
Con quali risultati?
1. Forte associazione tra l’uso di siti come Facebook e lo sviluppo degli studenti e la valorizzazione del loro capitale sociale, così come il loro benessere psicologico;
2. siti di “social networking” per incoraggiare una maggiore partecipazione dei cittadini;
3. affidabilità di ambienti di “social networking” per la costruzione di processi di conoscenza;
4. emergenza di nuovi tipi di pratiche di alfabetizzazione, di “partecipazione” e “Remix”, in base alle quali le domande precedenti, la dicotomia tra consumi e produzione e la sfida della nozione di “copia e incolla” inerente a questa dicotomia;
5. giochi e simulazioni come sviluppo e promozione di competenze metacognitive, quali il “problem solving”, l’analisi interpretativa e il pensiero strategico, per l’aumento motivazione;
6. affidabilità di queste tecnologie in termini di trasferimento di conoscenze tra i vari contesti, come ad esempio tra realtà online e offline e tra le reti locali e globali.
Ovviamente, nessuno sostiene che non possano essere deviazioni, storture, abusi e crimini perpetrati usando lo strumento digitale. Ma trattasi, appunto, di deviazioni, storture, abusi e crimini!
Dal punto di vista delle istituzioni e degli insegnanti abbiamo molte riserve dovute alla loro “forma mentis” da migranti, non più aggiornata su questo fronte dell’innovazione molto agguerrito, e spesso impaurita dalla povertà delle condizioni tecnologiche presente nelle istituzioni scolastiche (mai garanti di un servizio efficiente), spaventata dalla generazione dei nativi digitali che continua a irrobustire la sua veloce evoluzione verso traguardi sempre più irraggiungibili.
Il rapporto suggerisce pertanto di promuovere gli stili di comportamento e di apprendimento che i nativi digitali utilizzano per ottenere i loro “learning outcomes”.
Oggi, nel 2013, assistiamo invece all’avvio di un bando dell’USR Lazio per 420 LIM (3 per scuola) e per 70 Classi 2.0 (una per scuola) su circa 600 scuole statali presenti nella Regione. Insomma, qualche LIM di qua e qualche Classe 2.0 di là!
A. Calvani, dal canto suo, in “Alla ricerca di una ragion d’essere delle ICT nella scuola” (in Psicologia dell’Educazione, vol. 6, n. 3, Dicembre 2012) “gela gli entusiasmi” sulla retorica della funzione delle tecnologie per gli apprendimenti riportando i dati “evidence-based” di Hattie sull’“effect size”, i quali mostrano, ad esempio, la “no significant difference” degli apprendimenti con o senza le tecnologie e la centralità degli studenti e degli insegnanti, forse, direi, di più la centralità della loro relazione.
Calvani aggiunge però che ciò non esclude l’influenza costruttiva delle innovazioni tecnologiche se opportunamente considerate e analizzate nei loro contesti specifici.
Invitiamo tutti a leggere il suo contributo e considerare gli stimoli che produce, ma allo stesso tempo avvertiamo che la posizione di Calvani è distante da quanto oggi sostengono le neuroscienze, e in particolare M. Wolf (in “Proust e il Calamaro”), mostrando quanto possano incidere le diverse modalità di comunicazione proprio nell’attivazione di opportuni “link fra zone celebrali” più vicine ad alcuni apprendimenti che ad altri.
E, infine, in un mondo che correva rapidamente verso la “scrittura”, anche Socrate e Platone avrebbero presto dovuto cedere le proprie “armi della critica”.
Concludiamo spostandoci negli USA, per mostrare come si può guardare oltre. Ma molto oltre.
Come è noto, negli USA vige l’impostazione pragmatica Deweyniana. L’apprendimento informale per la National Accademy of Science (e, in particolare, per i Next Generation Science Standards) ruota intorno al concetto di apprendimento “pratico”.
La definizione di apprendimento “pratico” è centrata intorno al problem solving (su problemi “aperti” di qualsiasi natura, non solo scientifica ma, anche, ad esempio, sociale) e sembra essere ancor più congeniale all’idea di una “Comunità di pratica digitale”.
È il tentativo di misurare l’apprendimento informale attraverso lo sviluppo delle competenze correlate al problem solving e, quindi, di misurare in modo tangibile il processo, che essendo essenzialmente dovuto alle dinamiche della ricerca (ricerca della soluzione) non necessariamente è strutturato e istituzionale, ma potrebbe essere strutturato e certificato.
L’origine di questo approccio si ha con la “Inquiry based learning” e la “Inquiry based education” i cui pionieri sono stati per l’appunto Dewey, Piaget, Vigotsky, Freire e molti altri.
In questo contesto la National Research Council’s Framework (per le Scienze in particolare) definisce per la conoscenza scientifica quelle tre dimensioni che si combinano per formarsi a vicenda: dimensione pratica (caratterizzata dalle abilità specifiche piuttosto che dalla centralità delle competenze come la pratica cognitiva, sociale e fisica), dimensione trasversale dei saperi (concetti trasversali a vari e diversi ambiti del sapere, come ad esempio similitudini e diversità, causa ed effetto, stabilità e cambiamento…), dimensione disciplinare (idee centrali del “core” della disciplina, come ad esempio “key organizing concepts”, “key tools per problemi complessi”, “correlazioni con problemi quotidiani e le proprie esperienze di vita”, “insegnabili” e “imparabili” quindi trasferibili).
Su questo versante abbiamo già elaborato le nostre tesi in Experimenta (si vedano ad esempio le “Linee guida” allegate a “Il senso della laboratorialità” di Allega e Rocca o il concetto di “laboralità” di T. De Mauro nel documento della Commissione dei Saggi del 1998).
In questo approccio di “learning by doing” diventa centrale lavorare in termini di “project work” (A. M. Allega, “L’Arte della Progettazione Formativa, Spaggiari 2010).
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Immagine in testata di Ed Yourdon / Flickr (licenza free to share)
Arturo Marcello Allega